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martedì 9 ottobre 2018

L'Immacolata Concezione di Paolo Saverio di Zinno, opera prima dell'artista campobassano

Il Quotidiano del Molise dl 23 luglio 2018

di Paolo Giordano



Prenderà le mosse dalla chiesa di San Bartolomeo, con una conferenza il 20 luglio, “il Museo Itinerante Estivo” per conoscere, a partire dal 22 luglio, le opere ed i luoghi in cui visse Paolo Saverio Di Zinno, nel trecentesimo della sua nascita.

La chiesa di San Bartolomeo Apostolo a Campobasso
Nell’artistica struttura romanica è conservata l’Immacolata Concezione, cronologicamente la prima statua censita di Paolo Saverio, non antecedente al 1740, che sarebbe stata donata dall’autore stesso alla chiesa in cui era stato battezzato. Come scrive anche il prof. don Michele Volpe. nell’Annuario del R. Liceo Ginnasio “M. Pagano” del 1924/1925, sarebbe “la prima opera giovanile dello scultore campobassano, anzi (se è vera la tradizione) la prima da lui eseguita”. Per anni conservata nei depositi della Sovrintendenza è tornata laddove era stata esposta alla venerazione dei fedeli, per almeno due secoli, solo nel 2011, quando, grazie all’impegno dell’avvocato Alberto Pistilli Sipio, la chiesa di San Bartolomeo è stata “restituita alla vita”, e quindi al culto. Essa, con molte altre opere appartenenti all’arredo dell’antica chiesa, è stata ivi ricollocata per interessamento dell’allora soprintendente Daniele Ferrara.

L'Immacolata concezione di Paolo Saverio di Zinno

Accurato quanto impegnativo è stato il suo restauro. L’umidità della nicchia ricavata nelle vetuste mura, in cui era stata a lungo collocata, ed i danni causati dai tarli, l’avevano seriamente compromessa. Per poter riportare il capolavoro ad uno stato quanto più vicino possibile a quello originario, nell’impossibilità di conservare integralmente uno dei diversi livelli intermedi di colore, si optò per il recupero -pur se lacunoso- della policromia originale. Il Consorzio C.T.R. di Roma, artefice nel 1992 del restauro, effettuò anche una velatura delle lacune pittoriche e delle abrasioni, con un conseguente trattamento di equilibratura cromatica delle parti lignee a vista.
Come tramandato dalle fonti, Paolo Saverio Di Zinno si formò nella bottega di Franzese in Napoli. Successivamente tornò in forma più stabile nella sua città natale. Ciò avvenne in un momento sociale e politico particolare: il potenziamento dei commerci basati su allevamento e transumanza si erano rivelati propedeutici per una fase di sviluppo economico che incoraggiava e favoriva anche la produzione artistica. Tra l’altro, nel 1742, a Campobasso si era concluso l’iter per il riscatto della città al demanio, con conseguente affrancamento dal feudatario ed affermazione di gruppi sociali emergenti. Proprio in tale contesto, tra il 1740 ed il 1742, fu consegnata al clero di San Bartolomeo l’Immacolata Concezione.
Prima del restauro
Pur se erano ancora lontani sia la proclamazione del dogma dell’immacolato concepimento di Maria (Pio IX con la bolla “Ineffabilis Deus”, 8/12/1854) che le apparizioni di Lourdes (1858), in cui la Vergine dichiarò di essere “l’Immacolata Concezione”, la pittura, quanto la riflessione teologica, si erano già soffermate, nel corso dei secoli, a meditare su tale tema. “I Padri della Chiesa avevano accostato Eva e Maria per sottolineare che la Vergine era stata concepita senza il peccato, e con il passare del tempo l’assunto Semper Virgo. Dei Genitrix. Inmaculata era stato abbracciato da un numero sempre crescente di fedeli e difeso dai pontefici... Il tema pittorico (nonché scultoreo, ndr) dell’Immacolata trova nascita nell’Italia meridionale e particolare diffusione in Spagna. Si definisce dal punto di vista iconografico intorno alla fine del Quattrocento, e tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento gode di grande popolarità in Italia e, in modo speciale, in Spagna.” (R. Papa, L’Immacolata Concezione alcuni elementi di iconologia, Zenit on line 2013). Fino alle apparizioni di Lourdes, quando andò diffondendosi una nuova interpretazione iconografica strettamente legata a quei fatti, le
immagini dell’Immacolata dovevano tradurre la Visione dell’Apocalisse. Andava prevalentemente raffigurata “una bellissima bambina, nel fiore della sua età, da dodici a tredici anni, con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance. Con tonaca bianca e manto blu, vestita del sole, una corona imperiale sulla testa, sotto i piedi, la luna… più chiara e visibile la mezza luna. Adornasi con serafini e con angeli interi. Il dragone, al quale la Vergine spaccò la testa trionfando dal peccato originale… se potessi lo eliminerei per non disturbare il quadro” (Francisco Pacheco, “Arte de la Pintura”,1638). La Vergine del Di Zinno, come tutte quelle prima di Lourdes (quando i
dopo il restauro
piedi della Vergine toccheranno il terreno) sta ritta sulle nuvole da cui forse sbucavano cherubini e/o angeli. Allo stato attuale sono evidenti solo tracce che testimoniano la presenza della Luna e del serpente/dragone. Se avesse avuto una corona o un’aureola di stelle lo si potrebbe dedurre solo con un’osservazione ravvicinata. Ci appare, comunque, “nel fiore della sua età, bellissima bambina con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance”, ed è stata collocata dall’artista in uno spazio assolutamente ideale, a metà tra cielo e terra. La sua veste è celeste, anziché bianca, rispondente al gusto cromatico del tempo in cui fu realizzata. Il Manto, però, è rigorosamente blu. I colori, quindi, rispondono al requisito di “donna vestita di sole” come dalla visione della Apocalisse (Ap 12,1).
Con il restauro è apparso che la mano sinistra assolveva ad una sua peculiare funzione. Improbabile, anche se non impossibile, che reggesse qualche specifico oggetto simbolico o legato ad un particolare culto. Molto più plausibile, invece, è che ad essa venissero appese corone del Santo Rosario, soprattutto in considerazione dell’importanza di tale preghiera nella storia del cattolicesimo.
Ben ricca è stata la produzione artistica di Paolo Saverio Di Zinno, ma da sicuro questa statua, conservata a San Bartolomeo in Campobasso, evoca particolari suggestioni affascinando, in modo unico, sia l’addetto ai lavori che il semplice visitatore.

lunedì 11 maggio 2015

CAMPOBASSO Mostra Fotografica "Dipingere con la Luce" (21 maggio - 7 giugno 2015)




CAMPOBASSO. Il 21 maggio dalle ore 17.00 nell’atrio del Palazzo Magno, via Roma 47, verrà inaugurata la mostra fotografica “Dipingere con la luce”, a cura del critico d’arte Tommaso Evangelista e del fotografo Luigi Grassi (conferenza stampa ore 10). L’evento nasce da un percorso didattico legato al mondo della cultura delle immagini tenuto dallo stesso Luigi Grassi. Gli allievi, Chiara Brunetti, Carmine Cefaratti, Rossana Centracchio, Cristiano Civerra, Carmen Giancola e Lello Muzio, hanno avuto modo non solo di conoscere e sperimentare le proprietà dei materiali sensibili alla luce e di approcciarsi allo sviluppo fotografico, ma soprattutto di scoprire i molteplici lineamenti e cromie del linguaggio fotografico. Ognuno degli allievi ha fatto della propria esperienza in camera oscura un percorso interpretativo della forma degli oggetti che si rivelano nelle opere in eterogenee tonalità. La creatività e la fantasia sono gli unici comuni denominatori di queste opere, che verranno esposte dal 21 maggio sino al 7 giugno, orari per le visite: dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle 19.00

Cellula, ombre e luci_Carmine Cefaratti

Orizzonti_Carmen Giancola

UN LABORATORIO NECESSARIO
di Luigi Grassi

Un laboratorio in cui abbandonare la macchina fotografica e lavorare direttamente sulla carta fotosensibile con la luce. Lavorare con le forme astratte, geometriche, primarie significa entrare in contatto con la propria soggettività. A volte lo strumento fotografico, per il principiante assoluto, può inibire o bloccare l’acquisizione di un personale linguaggio fotografico e assopire le capacità critiche rispetto al mondo delle immagini e a quelle che si vanno producendo. Credo fortemente che la camera oscura e un percorso di fotografia sperimentale siano una disciplina efficace per acquisire una consapevolezza superiore o semplicemente diversa riguardo alle idee della fotografia e ai progetti che si vogliono sviluppare attraverso questa materia. In questo primo esperimento didattico gli studenti hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con il mondo della fotografia attraverso la manipolazione diretta dei materiali fotografici, hanno compreso i rudimenti che sono alla base dell’uso della macchina fotografica e hanno applicato una metodologia progettuale legata alle immagini da realizzare. Sono felice e orgoglioso di poter presentare in questa occasione i risultati del corso di fotografia “Dipingere con la luce”.

Genesi_Lello Muzio

Primavera di Fiori Chimici_Chiara Brunetti

IMMAGINI PER PASSAGGI
di Rossana Centracchio

“Dipingere con la luce”: una definizione semplice ed essenziale, ma che racchiude in sé le molteplici interpretazioni dell’arte fotografica. Dipingere non è altro che rappresentare, con intenzione, un oggetto reale o immaginario su una qualsiasi superficie per mezzo di colori. Noi, al posto dei colori, abbiamo utilizzato la luce, giocando con essa fino a creare contorni e ombre sulla carta che hanno dato vita a forme e a immagini, a “organismi viventi”. Non si tratta però di mostrare la mera struttura interna degli oggetti, ma di ricercare una natura “altra”, non sempre governabile dalla nostra razionalità. Ed è questo l’aspetto più interessante del nostro laboratorio: la scoperta inattesa, l’improvvisa rivelazione di immagini e figure. Sia l’intenzione, ovvero l’atto, con cui tendiamo verso un oggetto, sia l’immagine o forma dell’oggetto da noi conosciuto non corrispondono così all’idea inizialmente elaborata. Il laboratorio è anche ricerca essenziale dei costituenti fondamentali di un oggetto e della loro interazione.In questo modo la fotografia diventa strumento di indagine dei materiali e sui materiali, in grado di allontanarci dalle presunte analogie con l’esperienza quotidiana. Impressionare sulla carta, dunque, la materialità per considerare le modalità di creazione, ma anche di alterazione, del significato di una immagine. Ed è qui che entra in gioco il ruolo fondamentale del tempo, il quale diventa la rappresentazione concreta dei singoli momenti che costituiscono il processo di elaborazione dell’immagine fotografica. “Dipingere con la luce” non è altro che una esperienza spontanea e ricca di entusiasmo di fronte al tentativo di conoscere ciò che si pone al di là della nostra visione fotografica.

Taenia_Cristiano Civerra

Trame di Storie Brevi_Rossana Centracchio

IMPRESSIONI PER CONTATTO
di Tommaso Evangelista

Edouard Isidore Buguet, fotografo francese dell’Ottocento appartenente al movimento spiritualista, era famoso a Montmartre per la sua abilità nel far apparire in una fotografia lo spettro o il fantasma della persona cara al cliente che si recava da lui per una sorta di ritratto post-mortem. Arrestato nel 1875, la polizia scoprì che introduceva nella macchina fotografica delle lastre già impressionate con forme, figure e scritte che dovevano apparire sulla fotografia finale. Il fotografo però si poneva come medium cercando di evocare l’immagine. In fondo dipingeva con la luce, o meglio la richiamava nei filtri, dato che i suoi scatti, oggi, ci appaiono delle singolari invenzioni surrealiste, prive di quel fascino macabro che aveva colpito ingenuamente i parigini. La fotografia è un medium, anch’essa, oscuro ed enigmatico, tanto più ermetico e suggestivo quanto più torna indietro alle tecniche e ai processi antichi di stampa, nelle quali il gioco individuale sulla matericità delle forme si confonde con la tensione della scoperta. Ma la distanza con queste ricerche sta nella luce che crea contorni e distrugge le forme. Se le cronofotografie di Muybridge rivelavano chiaramente, come disse Degas, gli errori in cui sono incorsi tutti gli scultori e i pittori mostrando, all’occhio umano che confonde, l’autenticità del movimento, l’impressione della luce per ottenere l’impronta chimica di una immagine va esattamente nella ricerca opposta che individua nella rappresentazione personale e manuale l’interazione con il soggetto. Si fotografa non per oggettivare ma per vedere che aspetto avrà l’oggetto fotografato come se la realtà della lastra fosse altra dalla realtà fenomenica. La luce è, in fondo, un oggetto malinconico che smaterializza il corpo trasfigurando la visione che diventa, veramente, processo di evocazione “spiritica” delle forme. Forse l’attività “esoterica” di Buguet ci comunica molto più dell’impressione fotosensibile delle idee che della possibilità di evocare, in foto, i morti. Una lastra, del resto, rimane pur sempre il tentativo di impossessarsi dell’anima delle cose.

informazioni: cfcvivianmaier@gmail.com