Pensieri



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lunedì 12 maggio 2025

Il buio trasforma la fanciulla Delicata Civerra in un fantasma


...ora avvenne che Delicata Civerra s’innamorò di Alfonso Mastrangelo… 

Quei giovani ebbero una grandissima sventura, cioè di appartenere l’uno ad una fazione di ostinati com’erano i Crociati, e l’altra ad un partito di ambiziosi che si appellavano Trinitari.

Il Quotidiano del Molise del 24 novembre 2013


di Paolo Giordano

 “Nel punto in cui i due nuclei (l’abitato basso ed il castello al vertice) erano messi in comunicazione sorgeva una piazza d’armi, ben difesa da un articolato sistema, del quale rimane traccia evidente nei ruderi della  torre del Lupo, più nota come Terzano” (Gabriella Di Rocco – Cronache Casellane n° 161/2006).

Detto torrione è anche conosciuto come “di San Bartolomeo”, per la vicina chiesa, nonché “della Delicata Civerra”, poiché la tradizione vuole che il padre l’abbia ivi reclusa al fine di ostacolare l’amore tra lei e Fonzo Mastrangelo. Questa struggente storia fu pubblicata da Pasqaule Albino (1817-1899) per la prima volta nel 1848. Egli riprendendo un episodio “secondario” de “La Pace” (1841) di Michelangelo Ziccardi (1802-1845), diede alle stampe una novella in cui oltre alla vicenda romantica si affrontava un’attualissima, per l’epoca, questione politica. Infatti il superamento delle rivalità tra le fazioni locali (nello specifico Trinitari  e Crociati) stava a simboleggiare la pacificazione di tutti gli italiani con un unico obiettivo: l’Unità Nazionale.

I Civerra, secondo lo Ziccardi, furono tra coloro che “aggregaronsi” alla confraternita che “in quella nuova chiesa della Trinità si eresse”, mentre “i Mastrangeli” appartenevano “alla fraternita della Croce”. Il suo costrutto potrebbe, in un lettore distratto, ingenerare confusione quando afferma che “fu con solenne pompa seppellita da’ crociati in San Giorgio il sabato 13 marzo” 1587. Un tributo d’affetto tradivo ad una vittima delle scellerate lotte fratricide da parte degli “ex avversari”. Effettivamente in San Giorgio, prima dei restauri (anni ’80 del 1900), era murato, a destra entrando, un bassorilievo con Cristo morto che dicevasi essere la tomba della virtuosa giovane.

L’Albino, invece, è oltremodo chiaro: “ora avvenne che Delicata Civerra s’innamorò di Alfonso Mastrangelo… Quei giovani ebbero una grandissima sventura, cioè di appartenere l’uno ad una fazione di ostinati com’erano i Crociati, e l’altra ad un partito di ambiziosi che si appellavano Trinitari.” Insomma al giorno d’oggi Delicata, nelle fattezze di un manichino agghindato di tutto punto, è stata “nuovamente” (per motivi cultural-turistici) rinchiusa nella Torre. Ella tristemente siede ad un tavolo/scrittoio ed un cartellone bilingue ne narra le vicissitudini. Anche se è estremamente improbabile che questa struttura, sicuramente ancora funzionante per scopi militari alla fine del 1500, l’abbia “ospitata”, non si può che apprezzare l’intento di valorizzare le antiche vestigia cittadine, consentendo inoltre ai visitatori di entrare in contatto con la storia locale.

Però, al calar delle tenebre, la mancanza di illuminazione trasforma colei che fu “bellissima fanciulla di modi soavi” in un fantasma che a stento si intravede nelle inquietanti tenebre.

Tale situazione non poteva sfuggire al Pasquino di turno, che ha puntualmente infialato un biglietto tra le sbarre: “Vergogna!!! È mai possibile che sta cristiana debba continuare a soffrire al buio? Appicciatele una candela, perlomeno.”

La speranza è che l’accorato appello venga al più presto accolto!


Fonzo e Delicata
(di Antonio Pettinicchi)

 















Tommasa di Molise, contessa di Campobasso. Biografia pubblicata nel 2020 nell'Antologia BIOGRAFIE DI DONNE FAMOSE TRA REALTA' E LEGGENDA (Apollo Edizioni)


 

Le donne che hanno cambiato il mondo
non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla
se non la loro intelligenza
(Rita Levi Montalcini)


 

Tommasa di Molise, contessa di Campobasso

 

Si ignora se fosse notte o dì, se il torrido sole estivo arroventasse la bianca pietra del colle, su cui sorge la turrita Campobasso, o se il gelido vento invernale spazzasse la neve, negli stretti vicoli del Borgo. Probabilmente era una dolce primavera, o forse un tiepido autunno, l'unica certezza... il suono a festa delle campane nel lieto giorno in cui, agli albori del XIV secolo, il conte Guglielmo divenne padre per la prima volta. Una benedizione dal Cielo, anche per scongiurare la fine della dinastia dei de Moulins. La gloriosa casata francese, sotto la guida del capostipite Rodolfo, si era insediata, intorno all'anno mille[1], in un florido territorio dell'Italia centromeridionale che divenne il più vasto e potente stato della monarchia normanna sul continente,[2] e che -secondo alcuni- prese il nome dai sui Signori chiamandosi, sin da allora, "Molise".

Furono pochi, in quel lontano 1307, ad avvedersi dell'impercettibile, repentina, smorfia di stizza che solcò il viso del Conte nell'apprendere il sesso dell'erede. Di sicuro, però, una sincera gioia avrà avuto il sopravvento sul timore del "finis familiae". Certamente fu un sorridente Guglielmo a sollevare, sul proprio capo, il soffice fagottino mostrandolo ai fedeli sudditi che salutarono, con entusiastica ovazione, la piccola Tommasa.

Nulla induce a dubitare che Tommasella crebbe spensierata e felice, in compagnia della sorella minore Adalgisa, sognando il giorno in cui affiancare il conte padre nell'esercizio del potere. Purtroppo, secondo quanto ritenuto da alcuni storici, le venne a mancare prematuramente il genitore. Nel 1312 la tutela delle bimbe sarebbe, quindi, stata affidata ad un nobile della casa d'Evoli[3] e fu allora costui, nel 1320, a concederla in sposa a Riccardo II Monforte Gambatesa. Procedendo a ritroso da questo ferale anno, considerando che l'età da marito si attestava in quell'epoca intorno ai 12/14 anni, si può osare una presunta datazione della sua nascita nell'Anno del Signore 1307.

Riccardello... chi era costui? Forse anch'egli d'origine franco-gallica era nipote di Riccardo di Gambatesa, un illustre personaggio distintosi per fama e gloria dalle Alpi alla Trinacria, ostiario e familiare regio, giustiziere dell'Abruzzo Ulteriore, siniscalco di Provenza e Forcalquier.[4] La figlia Sibilia aveva sposato il di lui pupillo Giovanni Monforte, ed il figliuolo dei due, Riccardo, aveva ereditato titoli, arme e cognome del glorioso nonno, divenendo il primo Monforte-Gambatesa[5].

I festeggiamenti per l'unione di Tommasa e Riccardo, rampolli della nobiltà locale, furono degni del prestigio delle rispettive famiglie, come testimoniano i reperti rinvenuti in quella che fu la loro dimora, un elegante palazzo in stile federiciano[6], pavimentato con pregevoli e variopinte mattonelle di protomaiolica[7]. Raffinati anche gli arredi come si può desumere da un frammento del vasellame (dote nuziale) su cui campeggia il dipinto stilizzato dello stemma matrimoniale composto dall'unione di quello dei Molise di Campobasso (alla banda caricata da tre scudi) con quello dei Monforte–Gambatesa (alla croce accantonata da quattro rose)[8].

Non mancò certamente la ragion di Stato in questi sponsali, elevandosi Riccardello da barone a conte, o meglio a "principe consorte", considerato che mai ebbe ufficialmente il titolo comitale. Al pari del padre Giovanni, egli si ritrovò in una situazione di sudditanza rispetto alla più blasonata consorte che, in quanto primogenita, raggiunta la necessaria maturità nel 1326, subentrò al padre (o al tutore) nel governo cittadino. E' presumibile che, per la non del tutto abrogata legislazione longobarda, Riccardo risultasse mundualdo della propria consorte soggetta nei suoi atti alla potestà maritale[9], ma l'intera esperienza di vita di Tommasa lascia intendere che ella fu sempre protagonista assoluta non solo della sua stessa esistenza, ma di tutte le vicende legate all'amministrazione della contea di Campobasso. Dall'amore dei due nacque almeno un figlio di nome Carlo.

Nel 1338 durante l'assedio di Termini , in Sicilia, si concluse l'esperienza terrena di Riccardo II e la 31e Tommasa, non più giovanissima (considerando che l'età media si aggirava intorno ai quarantacinque anni), ma ancora desiderabile ed "ottimo partito", convolò a seconde nozze con Berardo d'Aquino, della stessa famiglia di san Tommaso. Di costui non resta ricordo, essendo anch'egli venuto repentinamente a mancare, ma la prova del suo lignaggio è nel Sepolcro, autentico gioiello d'Arte, contenuto in uno scrigno ancor più prezioso qual è la basilica romanica di Santa Maria della Strada in Agro di Matrice (CB)[10].

Donna Tommasa soggiornava lungamente nella Capitale, vicina al fastoso e complesso ambiente di Corte, dove gelosie e complotti erano all'ordine del giorno. Fu proprio a Napoli che il figlio si trovò invischiato in una tragica vicenda. Carlo aveva sposato Sancia de Cabanis (Cabannis), discendente di una genia di non nobili natali, ma ben affermatasi e fin troppo avvezza agli intrighi di palazzo. Nel 1345 entrambi furono coinvolti nell'omicidio del principe Andrea d'Ungheria, promesso sposo della regina Giovanna D'Angiò (mandante del delitto). Sancia fu giustiziata mentre Carlo, presumibilmente perché figura marginale, o non del tutto reo, fu salvato dall'intervento determinate della madre. Dopo il 1348, la memoria di Carlo fu obliata e Tommasa associò alla gestione della "res publica" un nipote, Angelo, il primo Monforte insignito del titolo di Conte di Campobasso.

Una pergamena, dall'elevato valore storico, tramanda che il 9 luglio 1376, nella curia cittadina venne transatta una questione di eredità al cospetto del luogotenente e del vicario dei conti: "Nos Jandarellus Goffridi de Neapoli, magnificorum dominorum domne Thomasie de Molisio et Angeli de Gambatesa, comittisse e comitis Campibassi"[11]. In un documento del 4 giugno 1375, la "comitissa" risulta giudice arbitrale nel sentenziare in una causa di eredità senza, però, la partecipazione del nipote, appunto a rimarcare la sua prevalente autorità negli uffici cittadini[12].

Nubi di guerra si addensarono alla fine del 1300 nel cielo molisano, quando Amedo VI di Savoia, il Conte Verde, alleato degli Angioini nella conquista di Napoli, giunse con i suoi armati sotto le mura cittadine[13]. "Il 17 febbraio 1383 Campobasso è preparata a resistere. La resa è intimata alla città ed al reciso rifiuto avutone segue il combattimento. Ma il resistere è vano e la contessa di Molise, che allora stava a Capo di Campobasso, si fa a chiedere pace ordinando si levasse sulla porta maggiore della città il segnale della resa""[14].

Con un capolavoro di diplomazia l'austera castellana trasformò una potenziale tragedia in due giorni di festeggiamenti in onore dell'importate ospite. Ella, dopo essersi scusata con il Savoia, adducendo quale motivazione, il timore dei campobassani alla vista di un così potente esercito, riuscì a far dimenticare l'incidente diplomatico (scongiurando saccheggi e uccisioni) invitando i signori delle terre vicine affinché si presentassero a rendere omaggio al principe vincitore, in una Campobasso animata da un insolito movimento "che per niente sapeva di guerra, ma di pace e di affratellamento".

Nel 1384, per la prima volta in assoluto, il conte Angelo viene chiamato in causa senza la presenza della nonna. Si può pertanto ragionevolmente supporre che la volitiva, quanto longeva, contessa possa essersi spenta, oramai ottuagenaria, a ridosso dell'ultima decade del XIV secolo.

La scarsa tradizione agiografica, la mancanza di cronisti e la dispersione di preziosi archivi hanno reso poco indagabile la figura di Tommasa di Molise che ha incontrovertibilmente lasciato un'indelebile testimonianza del suo Governo. Su Porta San Paolo, uno dei sei accessi al borgo medioevale di Campobasso, è murato uno stemma con data 1374 (AD MCCCLXXIIII). Esso fu ivi incastonato in occasione di ampliamenti o manutenzioni della cinta muraria e delle porte cittadine. L'arme, ancor oggi visibile, contiene le insegne esclusive dei Molise, a rimarcare la piena titolarità di donna Tommasa quale unica Signora della Città.

Ancor oggi, quindi, quella "banda sormontata da tre scudetti", emblema ante litteram dell'emancipazione femminile, racconta dolori e glorie di una Dama che, oltre a governare il suo contado con sapienza e lungimiranza, seppe caparbiamente testa a mariti, guerrieri e re.

[1] Il Sannio Pentro, Editoriale Rufus,1991

[2]Le Garzantine, Medioevo, Garzanti, 2007

[3] Storia di Campobasso Vol I, Linotipia veronese Ghidini  e Fiorini, 1960

[4] Dizionario Biografico degli Italiani Vol 52, Istituto Traccani, 1999

[5] Vite di avventura di fede e di Passione, Adelphi edizioni,1989 - Archeomolise n° 17, Archeoidea, 2013

[6] Echi del Sannio, Banca Popolare Province Molisane, 2017

[7]Il più antico pavimento in protomaiolica nel regno di Napoli, MiBAC, 2006

[8] Archeomolise n° 17, Archeoidea, 2013

[9] Storia di Campobasso Vol I, Linotipia veronese Ghidini  e Fiorini, 1960

[10] Santa Maria della Strada in Matrice, Leo S.Olschki, 1955

[11] Almanacco del Molise 1983, dizioni ENNE, 1984

[12] Almanacco del Molise 1983, dizioni ENNE, 1984

[13] Origine e progressi della Monarchia di Savoia, coi tipi di M. Cellini e C,. 1869

[14] Amedeo VI di Savoia in Campobasso-Ricordi Patri, manoscritto Archivio di Sato di Campobasso, 1893








sabato 6 novembre 2021

14-18 LA GUERRA A COLORI (parte seconda). A Campobasso, dal 10 novembre 2018 al 13 gennaio 2019, si è svolta nei locali della Galleria Spazio Immagine la mostra fotografica "14-18 LA GUERRA A COLORI".







IL BENE COMUNE

ANNO XIX - n° 4 - aprile 2019

14-18 LA GUERRA A COLORI


"Il documento fotografico arricchito del colore avvicina -coinvolgendo i sensi e le emozioni- ai volti, ai luoghi, alla distruzione ed alla cruda sofferenza" (dal catalogo della Mostra).


Parte seconda


Paolo Giordano 
 
Fermo restando quanto premesso, ma nella piena consapevolezza che la tragicità della guerra si potesse avvertire anche mediante il colore, durante il primo conflitto mondiale furono commissionate numerose fotografie policrome, destinate sia agli archivi che alla propaganda.
L'intento era forse quello di far percepire le vicende belliche come qualcosa di tragicamente attuale, nonché vicino, e non come la narrazione di un evento che si sta svolgendo altrove. 

"14-18" la Guerra a Colori 
Le immagini esposte nella Mostra campobassana, rese ancor più suggestive dalla retroilluminazione, sono da ritenersi autentiche opere d'arte. Tutte, indistintamente, hanno ispirato variegate emozioni e sensazioni in quanti le hanno ammirate, rendendo quasi impossibile scriverne in maniera esaustiva. L'esperienza dai più condivisa è sicuramente quella di aver viaggiato in uno spazio senza tempo, reso ancor più irreale proprio dal vedere a colori un'epoca, non solo lontana ma che, essendo in stato di guerra doveva essere obbligatoriamente in bianco e nero. La sovversione, quasi rivoluzionaria, di quanto sancito dalle regole della fotografia proietta il visitatore in una dimensione onirica, seducente e affascinante, attraverso cui entrare nella Storia. Ci si ritrova quasi in un'esperienza medianica di transfert, in una condizione empatica con i personaggi ritratti, a loro volta fluttuanti in una condizione di atemporalità. I volti fotografati sembrano a noi contemporanei! I giovani senegalesi delle truppe coloniali francesi, oltre a far trapelare una simpatica vitalità (è ironico quel pettine infilato tra i capelli?) sono resi ancor più attuali dalle tristi vicende dei tanti che, partendo anche da terre che hanno conosciuto il giogo europeo, intraprendono viaggi della speranza alla ricerca di una vita migliore.
Le espressioni tese, gli occhi impauriti, i pigli fieri e dignitosi, gli sguardi sgomenti o sorpresi dei giovani prigionieri (di entrambi gli schieramenti) fanno dimenticare la loro appartenenza nell'apparire tra loro fratelli, figli di uno stesso dio minore. Ibernati nella loro giovane età, ispirano un sentimento di tenerezza che induce a dimenticare come tra essi potrebbe celarsi addirittura qualche avo dei visitatori.


Dormi sepolto in un campo di grano…
Come l'Alighieri nell'Inferno della sua Commedia, definita Divina, fu guidato dallo spettro di Virgilio, così il pubblico della Mostra sembrerebbe venir condotto negli inferi della Grande Guerra dal suono delle canzoni di Fabrizio de Andrè.
immagine dal catagolo Mostra
Non si hanno prove che il cantautore genovese abbia avuto modo di ammirare queste autocromie, eppure in "Trincea francese" (1916) sono proprio dei papaveri rossi "a far veglia dall'ombra dei fossi" (La Guerra di Piero, 1964). Chi sa quanti Pierre erano presenti tra soldati che, incuriositi ("fintamente" se si considerano i tempi necessari ad uno scatto) osservano l'obiettivo, facendo capolino dai loro rifugi scavati in trincea.
In una delle sale della Galleria è stata allestita, dal Centro per la Fotografia Vivan Maier, un'area in cui poter affiggere liberamente, in un'ottica di sinergica condivisione e di fattiva interazione, ogni tipo di testimonianza (lettere, cartoline e documenti) sul periodo del conflitto. 
L'obiettivo, pienamente raggiunto, senza alcun condizionamento interpretativo ma solo con prove documentali, ha permesso un'ampia riflessione sui fatti e su coloro che ne furono protagonisti, sia immolandosi quale carne da cannone, sia mandando al macello migliaia di vittime, il cui sangue dissetò le aride zone di guerra.
Guardando i fotodipinti di uomini, donne, bambini, fantaccini, ufficiali, soldati impegnati nelle più svariate attività, prigionieri, conquistatori, corteggiatori, medici, moribondi e morti… il Virgilio si domanda "dove sono i generali, che si fregiarono nelle battaglie, con cimiteri di croci sul petto?" (La Collina, 1971). Sembrerebbe, però, che i graduati siano stati deliberatamente omessi… vi è solo un romantico capitano francese, in una tenuta tutt'altro che da battaglia, che posa per gli intervenuti in rappresentanza di tutta la categoria.


GiuseppeSerpone, soldato 212 Fanteria 1° reparto Zappatori zona di guerra
In questa stanza delle memoria si racconta, attraverso il rapporto epistolare con la consorte M. Antonia
G. Serpone (fonte Internet)
Cofelice, la vicenda del giovane Giuseppe Serpone da Toro, strappato ai suoi affetti, trascinato lontano dalla sua terra, per combattere una guerra di cui ben poco comprendeva. Rende ancora più tragica la sua storia, il parallelismo con le lettere che il Generale Luigi Cadorna, Capo di Staro Maggiore dell'esercito italiano, scambiò con la propria moglie. Alle semplici ma concrete riflessioni del soldato Giuseppe, fanno da controcanto, quale rovescio della stessa medaglia, le parole della più alta carica militare di quel momento storico.
Da un lato la non consapevolezza di cosa riservasse il futuro, la meraviglia dinanzi alla scoperta del mondo, "montagne così alte non ho visto mai", la fame, la fatica, il desiderio di tornare a casa, lo sgomento per la diserzione di un compaesano, il dolore per aver appreso della morte del cognato, l'attesa di una licenza, il bisogno di denaro per i francobolli e per il pane "… di più voi mi dite come me la passo in questa parte? Io vi dico che me la passo come Iddio vuole, che se io vi mande a dire qualche cose voi non lo credete e per questo e meglio che non vi mando a dire niente, che se il buon Iddio me la franco la pelle quando ritorno allora vi acconterò tutte le passione, ma non tutte però se no ve ne andate col cervello".
La furia della battaglia e la convivenza quotidiana con la morte diventano delle costanti nei pensieri di Giuseppe "07/09/1916… la giornata della assunta io mi trovavo in prima linea, e il giorno seguente fui anche ferito con una pallottola nella testa… ma fortuna che ciaveva il cappello di ferro e la pallottola andò strisciando e mi ferì dentro il collo e debbo ringraziare ad Iddio, e alla vergine dell'Assunta che forse ella non volle, a pure mio destino non è fatto per moriri in guerra".
Purtroppo, invece, il ventunenne Serpone morì il sette luglio 1917 a Plezzo, sul Carso, per le ferite riportate in combattimento colpito da una pallottola esplosiva. Riposa nel Sacrario Militare Italiano di Caporetto.
Il cognato Mercurio Cofelice (14/02/1889-27/06/1916), soldato del 4° Reggimento Bersaglieri, era in precedenza deceduto pugnando sul Monte Mrzli.
Dall'altro la visione "eroica" di un militare di professione che, pur rammaricandosi paternalisticamente per le giovani vite spezzate, lascia trasparire tutta l'enfasi di chi è fermamente convito che il suo dovere consista principalmente nell'offrire, con gesto incondizionato, la propria esistenza alla patria ed al re. Egli si compiace delle magnifiche truppe, piene di entusiasmi e di eroico slancio. Per il generale la morte in battaglia è gloriosa e quale miglior sepoltura potrebbe esservi, qualora effettuata in fosse comuni, se non tra le ossa dei compagni d'arme eroicamente caduti?
Entusiasta dei guerrieri pronti al sacrificio e desiderosi di abbandonare i letti d'ospedale per riprender le armi; sprezzante con i codardi, pronto a stupirsi come un bimbo per i tributi di affetto del popolo, affascinato dalla maestosità della natura "ieri mattina bellissima escursione sulle alture conquistate sulla destra dell'Isonzo. Si sentiva tuonare, in lontananza. Il cannone di una batteria austriaca". Rigoroso nel rifiutare licenze e favoritismi "al figlio del custode", raccomandatogli ripetutamente dalla moglie a cui non disdegna, però, di raccontare note di costume "pranzammo dal re nella sua molto modesta villa. Si direbbe che Sua Maestà simuli la semplicità".
Almeno dagli scritti si direbbe uomo saggio e riflessivo "Stamane andai sull'altipiano di Asiago al monte Lemerle, ultimo punto che fu furiosamente attaccato dal 15 al 18 agosto, Che spettacoli orrendi! C'erano molti cadaveri ancora da seppellire. Oh la guerra! E pensare che si potrebbe rimaner tutti tranquilli in pace se gli uomini non fossero sempre invasi dal prurito di prendersi la roba degli altri!".
Comunque sia il maresciallo d'Italia Luigi Cadorna, sul quale ognuno trarrà le personali valutazioni, morì a 78 anni a Bordighera, nella "Pensione Jolie", poi divenuta "Hotel Britannique", il 21/12/1928 per cause naturali.
 
Lo stesso identico umore... ma la divisa di un altro colore
Le immagini in mostra nascono con scopi propagandistici e di cronaca, pur se tutte ugualmente sono da ritenersi autentiche produzioni artistiche anche grazie al colore che indiscutibilmente dona loro un valore aggiunto.
Le ambientazioni e gli abbigliamenti trasmettono una sensazione di quasi normalità. Necessita la giusta attenzione per identificare le nazionalità, distinguendo i buoni dai cattivi. Ci si trova spesso semplicemente al cospetto di uomini accomunati da molteplici occupazioni tutt'altro che di natura bellica. Sembra che la guerra assuma una dimensione umana, a tratti cavalleresca, in cui il nemico si sente investito del dovere di curare e assistere lo sconfitto, una volta che questi è divenuto un inerme prigioniero… e lo Spirito Guida torna a cantare "La Guerra di Piero" dove solo la divisa fa la fondamentale, ed irreversibile, differenza. Il nemico uccide per paura non per odio: "Quello si volta, ti vede e ha paura/ Ed imbracciata l'artiglieria/ Non ti ricambia la cortesia".
Nel percorso espositivo non si trasmette, quindi, alcun messaggio precostituito, né, come per la Sala della memoria, si vuole influenzare l'osservatore. Egli deve solo ascoltare ciò che le immagini gli suscitavano nel più profondo dell'animo.

Le Caporal Langelé
Nella disposizione delle foto, tra operazioni tecnico-belliche, scene di quotidianità, distruzione e ricostruzione, partenze e ritorni, bambini che giocano alla guerra, guerrieri stupiti come bimbi, amore,
immagine dal catagolo Mostra
odio e morte, potrebbe ravvisarsi un itinerario ascetico, che rimanda al progetto divino della redenzione. La prima foto in assoluto raffigura delle donne, operaie in una fabbrica francese di aerei, tra loro se ne distingue una con un fazzoletto dal mistico colore azzurro sul capo. Partendo da questa novella Maria/Eva il susseguirsi dei lightbox conduce, attraverso un irrefrenabile crescendo, fino all'ultima foto, posta fisicamente in alto, alla fine di una scalinata, adagiata su delle lastre in pietra simboleggianti un sepolcro. Essa consegna ai posteri le spoglie martoriate del caporale Langelé, il corpo esanime, completamente nudo, adagiato nella sua miseria umana su un lenzuolo e sorretto da un occasionale catafalco. Un povero cristo sulle cui mani sembra quasi di vedere i fori dei chiodi... un Cristo, simbolo del genere umano immolato in quell'inutile strage,
per il quale, però, non è prevista alcuna resurrezione: "Dove i figli della guerra/ partiti per un ideale/ per una truffa, per un amore finito male/ hanno rimandato a casa/ le loro spoglie nelle barriere/ legate strette perché sembrassero intere." (La Collina, 1971).

Vestitini rossi... i bimbi e la Guerra!
Nel film "Schindler's List" di Steven Spielberg è contenuta una celebre scena che lascia indelebile memoria di sé nell'animo dello spettatore. Essa può essere annoverata tra i più noti ed affascinati esempi dell'uso in contemporanea del bianco e nero e del colore. Una bimba con un cappotto rosso cammina, come presenza atemporale, tra deportati e aguzzini rigorosamente in bianco e nero. Il suo cappottino si rivedrà, spegnendo ogni speranza del pubblico in sala, in un cumulo di cadaveri!
In "14-18 La Guerra a Colori" è individuabile una sezione a parte riguardante proprio i bambini. In realtà si tratta di poche, ma significative foto, il cui forte effetto propagandistico sfugge di primo acchito in virtù del candore dei soggetti ritratti. Ne è protagonista un bambino che indossa, imprevedibile coincidenza, un vestitino rosso!
immagine dal catagolo Mostra
Il soldatino, perfetto ed agguerrito milite francese, è ora guardia d'onore alla consegna di onorificenze ai suoi piccoli commilitoni, ora cattura, ardito guerriero, un perfido nemico, infine asso dell'aviazione abbatte, dopo un impegnativo duello aereo, un monoplano con le insegne germaniche. 
     
Il combattimento aeronautico, oltremodo suggestivo tanto da essere divenuto una delle immagini simbolo della Mostra, è ovviamente da ritenersi tutt'altro che spontaneo. Dalla cura dei particolari trapelano studio preliminare ed artificio scenico, prevalentemente in considerazione delle difficoltà tecniche che s'incontravano nel produrre uno scatto a colori. E' da ritenersi innegabile che, nella sua apparente innocenza, tale composizione sia risultata maggiormente incisiva nel rendere "giusta" quella guerra, molto più di quanto vi saranno riuscite le tante scene di devastazione, dolore e pianto tramandate ai posteri.

 
 
 
La ragazza di Reims
Ben diverse e meno ciniche le suggestioni ispirate dalla fotografia dal laconico titolo "Ragazza" – Reims, Francia 1917, opera di Fernand Cuville.
E' il ritratto, in una giornata assolata, di una bambina, seduta su uno zaino militare, con in braccio una bambola. Accanto a lei un altro zaino e tre fucili. Alle sue spalle negozi di generi alimentari, si distinguono cacciagione ed ortofrutta. Assale il sospetto che i proprietari di quel materiale di morte siano in luoghi di piacere fuori dalla scena. La piccola, dall'aspetto serafico e dallo sguardo malinconico, abbraccia con dolcezza la sua bambola, accudendola amorevolmente e sognando quella serenità che le hanno brutalmente strappato. Intorno lutti, desolazione, odio, sangue, ma soprattutto la brama di appagare i propri bisogni carnali, fame o sesso che siano.
Oltre all'analisi visiva, viene da chiedersi cosa realmente intendesse comunicare l'autore che, come ampiamente ribadito, non poté certo procedere ad un rapido scatto, dovendo preparare accuratamente la scena, che, al pari di un dipinto, risulta comunque un'opera d'arte.
Lo scopo principale era di rispondere ad un'esigenza di cronaca, ma perché escludere che Cuville intendesse parlare anche di amore? Un sentimento puro ed avvolgente di cui la Ragazza, ancor bambina, aveva fortemente bisogno, nonché una pulsione più viscerale… l'illusione dei soldati di sfuggire alle atrocità della Guerra ed alla Morte rifugiandosi nel calore umano: ...cosa vai cercando in quel portone/ forse quella che sola ti può dare una lezione... Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte... diecimila lire per sentirti dire "micio bello e bamboccione" (F. De André - La Città Vecchia, 1965).Per la fotografia di Cuville, come per tutte le immagini esposte, si rinnova quindi il dialogo tra il fotografo, intenzionato a trasmettere un proprio messaggio, e gli spettatori alla continua scoperta di ispirazioni ed interpretazioni intime e personali. La stessa didascalia, "Ragazza", potrebbe essere sostituita con una varietà di titoli suggestivi tra cui "L'infanzia negata", "La fanciullezza non vissuta" o, semplicemente, "La Ragazza di Reims".
foto Marisa Pia Boscia
Di rado, come invece accade per questo evento, si riesce a mantenere sempre vivo il dialogo tra le opere in mostra ed i visitatori che osservano, commentano, riflettono o fotografano. Tanto ciò è vero che, in una fotografia scattata al vernissage, s'intravede una mano, forse quella di una madre che indica ai figli la tenera bimba di Reims. Quel dito rimanda, in un virtuoso processo di associazioni, alla Creazione michelangiolesca della Cappella Sistina. Tra le tante atrocità della Guerra, qui testimoniate, sembra che una mano divina punti l'indice verso quella sua indifesa creatura sofferente… saprà Essa accarezzare quel cuore spezzato, restituendo pace al Mondo devastato, oppure resterà nell'oscura indifferenza, giudicando severamente (e condannando) la miseria umana che ha provocato anche il dolore dell'innocente?



Fonti bibliografiche e fotografiche


Massimo Vitale
. Con l'animo che vince ogni battaglia - I molisani nella grande Guerra (1917-1918). Enzo Nocera Editor. Campobasso, 2007.

Centro per la fotografia Vivan Maier. 14-15 La Guerra a Colori. Catalogo della Mostra a cura di Federico Mininni. CM Stampa. Campobasso, 2018. 
Paolo Giordano. La Grande Guerra rivista coi colori della storia.
Il Quotidiano del Molise, 6 gennaio 2019 
Paolo Giordano. La Ragazza di Reims fascino e suggestione de La Guerra a Colori.
Il Quotidiano del Molise, 14 gennaio 2019. 
FOTOCRAZIA, Evoluzione e rivoluzione nel futuro, nel presente e nel passato del fotografico. http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ 
Albo dei Caduti della Grande Guerra. http://www.cadutigrandeguerra.it/Default.aspx