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giovedì 8 novembre 2018

La "Madonna di Costantinopoli" e la "Maddalena penitente" nella Cattedrale di Campobasso, II parte



Articolo pubblicato sul numero 1, mese di gennaio 2017, de "IL BENE COMUNE", anno XVII.



La "Madonna di Costantinopoli" e la "Maddalena penitente" nella Cattedrale di Campobasso.

seconda parte

Le due opere, uniche superstiti del ricco patrimonio pittorico che decorò nel XIX secolo la chiesa della Santissima Trinità, "raccontano" alle nuove generazioni le vicende ottocentesche del Duomo cittadino.


di Paolo Giordano

la chiesa della Santissima Trinità
 in Campobasso
da "La Patria, geografia dell'Italia,
 anno 1899"
"Negli ultimi anni del secolo XIX, dopo un'aspra battaglia tra le autorità civili e religiose, il mite vescovo Felice Gianfelice, affiancato dal can. Minadeo, mediante anche l'opera del benemerito sindaco Bucci, riottenne il possesso della Santissima Trinità. Mentre fervevano i necessari preparativi di restauro e ripulitura della nostra chiesa e precisamente il 27 settembre 1888, essa ospitò Giacomo Dalla Chiesa allora semplice funzionario di Stato di Sua Santità, futuro cardinale di Bologna e poi eletto papa con il nome di Benedetto XV. Egli fu mandato da papa Leone XIII per indagare sui fatti della apparizione dell'Addolorata a "Cesa tra Santi" in Guasto di Castelpetroso. Da pontefice si ricordò della bella ospitalità ricevuta e delle strettezze economiche in cui versava la nostra chiesa trinitaria¸ perciò inviò la sua offerta personale di £ 20.000 per i restauri della medesima". (Giuseppe di Fabio)
Il 31 dicembre 1899 la chiesa della Trinità venne finalmente riaperta al culto. Probabilmente in essa erano ancora tutte visibili le profonde "ferite" inferte da decenni di profanazioni e, se per i cattolici campobassani poteva trattarsi "di una memorabile vittoria contro l'anticlericalismo" (F. Pece), di sicuro non c'era da rallegrarsi per gli irreparabili danni subiti dal patrimonio artistico e culturale cittadino.
Come già osservato forse solo quattro opere, delle 14 giunte da Napoli, dovevano essere sopravvissute alle spoliazioni di fine ottocento: il Natale, San Girolamo, Santa Maria Maddalena e la Madonna di Costantinopoli.
Merita, a questo punto, aprire una parentesi per richiamare l'attenzione su un altro dipinto presente nella Cattedrale che, se pur non collegato in alcun modo alla donazione borbonica, è comunque un'importante testimonianza delle vicende storico-artistiche locali. Si tratta di un'Incoronazione della Vergine, di scuola napoletana (XVII secolo), che quasi sicuramente era quella posta "in testa all'altare principale" (Luigi Nauclerio, 1688) della chiesa cinquecentesca distrutta dal terremoto del 1805. La tela, quindi, è un autentico cimelio "sopravvissuto" a cataclismi umani e naturali.

Tornando alle vicissitudini ottocentesche, va evidenziato che la chiesa della Trinità subì un ulteriore mutamento di destinazione d'uso quando ospitò, durante il conflitto ‘15-‘18, un ospedale di guerra. Infine fu, nel 1927, elevata a Cattedrale con i conseguenti interventi di ristrutturazione ed ampliamento voluti dal Vescovo Alberto Romita, il primo della diocesi Bojano - Campobasso. 

La testimonianza di padre Eduardo Di Iorio
L'Incoronazione della Vergine,
Cattedrale di Campobasso (foto Mario Gravina)
Negli anni 70 del 1900 solo due delle quattro opere superstiti facevano ancora mostra di sé nelle navate della Chiesa: "una santa che riceve la corona di spine ed una vergine col bambino… Due dipinti, che prima dei restauri del 1972-73 erano nelle pareti del tempio, hanno le dimensioni di m. 2½ x 2. Uno rappresenta una Santa sul tipo di Maria Maddalena, che riceve da un Angelo la corona di Spine, mentre altri due Angioletti di più piccole dimensioni sostengono la colonna della flagellazione, Nel lato inferiore a sinistra (sic) vi è un'anima tra le fiamme purificatrici. Il secondo dipinto su tavola raffigura la Madonna col bambino, avente ai lati S. Giovanni Battista con cartiglio: Ecce Agnus Dei e San Pietro con le Chiavi. Ai piedi di Maria si vedono due piccolissimi Angeli che dalle loro brocche versano acqua ristoratrice sul popolo. Ai due lati superiori nelle parti estreme sono dipinti due Angeli con strumenti musicali."

La "Madonna di Costantinopoli" torna ai campobassani
Madonna di Costantinopoli
Cattedrale di Campobasso
(foto Mario Gravina)
Fino al 2012 era solo grazie a questa descrizione di padre Eduardo Di Iorio (Campobasso, itinerari di storia e di arte) che agli interessati era consentito "vedere" gli unici quadri giunti a noi di quelli provenienti dal Real museo Borbonico. E se con la Maddalena "un incontro" poteva pur sempre essere possibile, su gentile concessione del clero, essendo la stessa custodita negli uffici parrocchiali, ogni speranza di ammirare la Madonna di Costantinopoli era di fatto persa, essendo essa conservata in quella extra dimensione, quasi leggendaria, che risponde al nome di "Deposito della Sovrintendenza".
Si deve all'interessamento del professor Filippo Pece, che trovò pieno riscontro nell'entusiasmo e nella passione professionale dell'allora sovrintendete Daniele Ferrara, se l'olio su tavola raffigurante la Vergine Odigitria è tornato al culto ed alla visione di fedeli e turisti.
Impossibile prescindere, per la presente "cronaca", e per la lettura delle due opere, dall'articolo di Silvia Sbardella "Tra donazioni e sparizioni-le vicende ottocentesche dei dipinti della chiesa della Santissima Trinità di Campobasso", pubblicato su "Napoli Nobilissima", maggio-agosto 2004. 


Le chiesetta in via Ferrari
l'ex Chiesetta della Maddalena
La tela raffigurante la Maddalena penitente fu per un certo lasso di tempo ospitata nella chiesa omonima, ubicata in via Ferrari a Campobasso: la parte finale di detta strada, che va ad allargarsi a mo' di piazzetta, prende appunto il toponimo di largo della Maddalena. Qui era ancora officiata, fino ai primi decenni del 1900, una chiesetta priva, però, di qualsivoglia pregio artistico. L'edificio che ospitò il luogo di culto è oggi identificabile grazie alle architetture esterne, caratterizzate da due lesene laterali che incorniciano la facciata rettangolare (faccia quadra). Nel passato, come tramanda il Masciotta, la piccola chiesa venne adibita ad Oratorio per gli studenti del Collegio Sannitico (poi Convitto Mario Pagano). Negli anni trenta del secolo scorso, la chiesina, bisognosa di manutenzione, fu messa in vendita per sostenere le spese legate alla costruzione del nuovo seminario diocesano con sede nel Capoluogo. Essa fu, quindi, venduta nel 1929 (contratto definitivamente concluso nel 1931) a tal Diodato Mancini, che vi aprì una drogheria impegnandosi a non destinare mai lo stabile ad usi sconvenienti e volgari. Per decenni ivi ebbe sede uno storico negozio di abbigliamento ed alla data odierna l'immobile è inutilizzato, pertanto sarebbe da appurare se quella clausola di vendita sia stata trasmessa anche ai successivi acquirenti (ndr).
Fu in questi umidi locali che il quadro della Maddalena, titolare dell'edificio sacro, subì ulteriori compromissioni tanto da giungere a noi bisognoso di opportuni restauri, versando lo stesso in un non eccellente stato di conservazione.

Le due "Maddalene"
Nulla indurrebbe a dubitare che l'attuale sia la Maddalena inclusa nella donazione del 1829, eppure "non tutti i conti tornano". Quello che potrebbe sembrare un semplice modo di dire, proprio del 
Maddalena penitente
Cattedrale di Campobasso
(foto Mario Gravina)
linguaggio quotidiano, cela in concreto un'imprevedibile verità: sono realmente "i conti", o meglio le misure, a far porre dei legittimi interrogativi. La "Santa Maria Maddalena con angeli che la portano in gloria", esposta nella Santissima Trinità di Campobasso, misurava palmi 6 x 10, ovvero cm 265 x 159, mentre il dipinto attualmente conservato negli uffici parrocchiali è alto 197 cm ed è largo 174 cm. Indubbiamente è plausibile che gli interventi di restauro ed intelaiatura abbiano potuto ridurne le dimensioni, ma come mai il quadro risulta cresciuto? Istintivamente viene da pensare ad un errore di misurazione, ma in realtà si tratta di un ulteriore storia nella Storia!
La curiosa discrepanza, rilevabile anche nella mancata rispondenza iconografica, è dovuta al fatto che il vescovo di Bojano (si presume intorno al 1844, datazione del documento dell'Archivio di Stato di Napoli che riporta l'episodio) ebbe a protestare per le "soverchie nudità dell'immagine della Maddalena collocata in uno dei due cappelloni della chiesa matrice di Campobasso" (S. Sbardella). L'alto prelato ottenne dal Re che "il quadro istesso fosse spedito in Napoli e che se ne surrogasse altro più adatto della stessa misura". Michelangelo Ziccardi, sindaco di Campobasso, si recò nella capitale e, assistito dal Direttore del Real museo, procedette nel 1844 alla sostituzione, riportando in città la "nuova" Maddalena.

La Maddalena penitente
"La lettura dei caratteri stilistici di quest'opera non potrebbe che rilevare la sua inclinazione verso una matrice classicista, dove toni di temperata intensità sentimentale ed espressiva si uniscono al sapiente uso di una ragionata articolazione compositiva di stampo marattesco. Questo insieme di elementi, uniti alla predilezione per una pittura limpida e giocata sui toni tenui del cromatismo giordanesco, invitano a guardare con insistenza alla produzione di uno dei grandi esponenti della cultura figurativa napoletana del tardo Seicento, Paolo De Matteis, e al contempo, alla pittura del giovane allievo di questi, Giovan Battista Lama8 " (S. Sbardella)
Galatea, di Paolo De Matteis, 1692
Galleria di Brera, Milano (fonte internet)
Affascinante ed inconfutabile è il confronto tra la Galatea (1682) del De Matteis, della Pinacoteca di Brera con sede a Milano, e la "Maddalena" di Campobasso. La disposizione delle figure all'interno delle due scene è quasi sovrapponibile, anche se alla postura frivola e sensuale della ninfa si contrappone l'atteggiamento di Maria Maddalena, più composto e consono al contesto religioso. Molte delle figure che affollano il quadro di Brera scompaiono, mentre altre vengono opportunamente trasformate. E' ravvisabile un irrigidimento accademico delle forme e del colore tipico della produzione sacra, caratteristico della maturità artistica di Giovan Battista Lama. Dall'osservazione delle opere di quest'ultimo appare che vi sia più di una semplice e casuale affinità linguistica con la Maddalena penitente.
Appare evidente che il dipinto originale fosse più grande e che esso sia stato rimaneggiato ben prima di essere inviato in Molise. Si intuisce, infatti, la presenza di altro/altri personaggi sulla destra dell'osservatore: si intravede un drappeggio ed alcuni sguardi sono rivolto verso qualcuno fuori campo. Semplicemente angeli o forse un Cristo? Del Resto anche nel Trionfo di Galatea del De Matteis, la nereide guarda verso Aci, il bellissimo pastore da lei amato, che occupa una parte della scena.
Incuriosisce il demonietto che offre alla Santa una corona d'oro, simbolo di potere, in contrapposizione alla corna di spine, simbolo di umiltà, offertale dall'angelo. Il volto bonario, quasi innocente del diavoletto, incarna l'aspetto accattivante della tentazione: non un truce spirito dannato, ma un simpatico povero diavolo.


Maddalena penitente, "le due corone offerte alla Santa"(foto Mario Gravina)

La Madonna di Costantinopoli
Se, quindi, per la Maddalena si può accettare con ragionevole certezza l'attribuzione al Lama, così come ben motivato da Silvia Sbardella, per la Madonna di Costantinopoli si può solo ipotizzare una qualche paternità.
Madonna di Costantinopoli
particolare raffigurante
San Giovanni Battista
(foto Mario Gravina)
"La Madonna col Bambino, San Giovanni e San Pietro" di palmi 8 ½ x 7 ½  (cm 224 x 198) era stata in un primo momento destinata (su scelta del pittore oratinese Isaia Salati) alla chiesa matrice di Oratino, per poi essere donata alla Santissima Trinità di Campobasso. Del dipinto, inventariato da Vincenzo Camuccini (chiamato nel 1824 a riordinare il Reale museo borbonico) con il n° 1127, non si dispone di notizie relative né all'autore né, tantomeno, all'originaria provenienza, ed è sinteticamente definito quale "copia d'Imparato" (Girolamo Imparato, 1549-1607). "Stilisticamente l'opera può essere inquadrata nell'ambito del panorama artistico-figurativo della pittura partenopea degli ultimi decenni del cinquecento: la composizione sobria e quasi schematica lascia trasparire la predilezione per un linguaggio di chiara matrice devozionale, depurato da ogni tentativo di artificio, dove invenzione ed estro creativo cedono il passo ad una pittura sacra più equilibrata ed impregnata di quello che Leone de Castris definisce in maniera sintetica realismo devoto" (S. Sbardella)
Madonna di Costantinopoli
particolare raffigurante San Pietro
(foto Mario Gravina)
Lo stile e l'impaginazione compositiva riconducono alla ricca produzione di pale d'altare che contraddistinse, per tutta la seconda metà del XVI secolo, la florida bottega di Silvestro Buono e Giovan Bernardo Lama: la Madonna col Bambino e santi Giovanni Battista e Domenico, realizzata dal Lama per della chiesa di San Lorenzo a Napoli, sembra frutto del medesimo modello preparatorio.
Ma se si confronta la Madonna di Costantinopoli con alcune opere, di fine cinquecento, dell'Imparato (l'Annunciazione della chiesa del Gesù di Lecce e la Trinità di Montecassino) è possibile constatare assonanze stilistiche ed iconografiche tutt'altro che trascurabili.
A quale dei due artisti, se non a qualche loro discepolo, potrebbe essere attribuita la "Madonna" di Campobasso?
Ipotizza Silvia Sbardella che, addirittura, potrebbe "essere il frutto di un lavoro di collaborazione tra i due pittori, che ebbero modo di incontrarsi quando Imparato, agli esordi della sua carriera, compiva il suo apprendistato proprio nella bottega del Buono".
La Madonna di Costantinopoli (le cui attuali misure sono cm 220 x 185) è in ottimo stato di conservazione essendo stata restaurata dal laboratorio PF Restauri, prima di essere nuovamente esposta nella Cattedrale di Campobasso. Ironia del fato vuole che nell'antica cinquecentesca chiesa della Trinità, compromessa dal sisma del 1805, vi fosse una grande cappella "della famiglia Pistilli, con cona indorata, con quattro colonne di mezzo rilievo, con nicchia in mezzo e statua indorata di Santa Maria di Costantinopoli" (Luigi Nauclerio, 1688).

L'iconografia della vergine Odigìtria,
Il titolo di Madonna di Costantinopoli è legato all'immagine della "Madre di Dio", detta Odigìtria, così com'era rappresentata nell'icona di Maria venerata a Costantinopoli nella chiesa degli odigos (guide). Nome derivante, secondo una delle tante versioni interpretative, dalla presenza di un monastero che ospitava le guide incaricate di accompagnare, ad una fonte miracolosa, coloro che erano affetti da malattie agli occhi perché riacquistassero la vista. 
Madonna di Costantinopoli,
particolare (foto Mario Gravina)
Detta icona era costituita da una testa di Madonna con il Bambino, dipinta su tavola in Palestina con la tecnica dell'encausto, ed era considerata un ritratto della Vergine realizzato dall'evangelista Luca, ritenuto ritrattista della Madonna. L'opera, giunta a Costantinopoli, venne "completata" divenendo una tavola raffigurante l'intera figura di Maria.
Il tipo iconografico di Santa Maria di Costantinopoli9 ritrae la Madonna (con l'abito rosso simbolo della natura divina) che indica il Figlio come "via, verità e vita". Nel dipinto di Campobasso il Bambino non viene espressamente "indicato", ma la Madre, con il suo amorevole abbraccio, poggiando teneramente la fronte su quella del Cristo bambino, lo mostra ai fedeli che vengono catturati dal suo profondo ed eloquente sguardo.
Spicca sul manto blu, che rappresenta il Cielo, la stella ad otto punte, emblema di perfezione (essendo questo un numero perfetto). La stella è un  attributo prettamente mariano: Ella è la Stella mattutina e la Stella Maris (stella del mare), segno di speranza e di costante riferimento spirituale per i cristiani, al pari della stella polare per i naviganti. Con tale titolo, simile appunto a quello di Odigitria, la Vergine Maria è invocata come guida e protettrice di chi viaggia o cerca il proprio sostentamento sul mare.
Una ricorrente caratteristica illustrativa della Madonna di Costantinopoli è la rappresentazione di una città turrita, e cinta di mura, in preda alle fiamme causate da un imponente incendio, presumibilmente conseguenza di un assedio di Saraceni. Alcuni angeli versano dal cielo acqua per domare il fuoco distruttore: i roghi del peccato che bruciano l'anima vengono estinti grazie all'intercessione della Vergine.
L'opera campobassana, pienamente rispondente all'iconografia classica, è arricchita dalla presenza dei Santi Giovanni Battista e Pietro, contraddistinti dai loro rispettivi simboli.
Il primo rivolto verso l'osservatore, ha ai piedi l'agnello. Indossa un manto rosso (colore del martirio) ed è avvolto da una veste di peli di cammello (con cui si copriva nel deserto il Battista, come narrano i Vangeli). Egli regge la croce con il cartiglio riportante la frase "Ecce Agnus Dei", il suo dito indice è elevato ad indicare il Mistero l'Incarnazione del Figlio di Dio.
Il secondo santo, con l'abito bianco (colore della purezza), ha sulle spalle un mantello ocra giallo/oro (lo splendore della santità). I due colori sono quelli della Chiesa (gli stessi della bandiera vaticana) di cui egli è rappresentazione metaforica.
Pietro regge le doppie chiavi, quella d'oro che può aprire il cielo e quella d'argento che può serrarlo (Purgatorio IX canto) e, contemplando la Vergine, mostra il libro della Parola di cui è custode, come lo è la Chiesa che rappresenta.

L'irrimediabile scomparsa di una ricca donazione
Di tutta la ricca donazione ottocentesca sono state consegnate ai posteri solo queste due opere.
Madonna di Costantinopoli
 particolare della città in fiamme
(foto Mario Gravina)
Nel contempo ci piace credere di aver fornito, con il nostro lavoro, un minimo contributo affinché ad esse venga sempre più concessa la dovuta attenzione, facendole divenire oggetto di appassionati ed approfonditi studi. E', comunque, difficile, pur se a distanza di 150 anni, accettare la scomparsa degli altri 12 quadri. Per quelli fagocitati dal periodo buio (per la chiesa della Trinità) a cavallo dell'unità d'Italia, non ci si dovrebbe che rassegnare…. ma è la totale perdita di ogni memoria degli altri due, ancora visibili negli anni 30 del 1900, a lasciare oltremodo perplessi. E' facile supporre che il San Girolamo (cm 185 x 132 "all'origine") possa essere stato agevolmente trasferito altrove, ma il Natale, a causa delle sue grosse dimensioni (cm 238 x 582) avrebbe dovuto necessariamente lasciare una qualche traccia di sé.
Oramai, per ragioni meramente generazionali, non vi è più alcuna possibilità di raccogliere testimonianze dirette sulla presenza di quei dipinti: probabile che si siano deteriorati con il tempo, o che siano stati ricollocati. Forse venduti o depezzati, ricavando più opere da una solo iniziale.
Un aiuto potrebbe venire da foto di interni della "Trinità", o di altre chiese, per confrontare quanto in esse contenuto. Mancherebbero, inoltre, inventari visivi del patrimonio storico-artistico locale. Gli archivi dei grandi fotografi molisani o sono difficilmente consultabili (presso Alinari molte fotografie Trombetta non sono digitalizzate) oppure sono in attesa di conoscere il loro destino (che ne sarà mai della preziosa produzione Chiodini?)
La speranza è che questo excursus, oltre ad incuriosire verso la storia e l'arte cittadine, riesca ad aprire, con un plurisecolare ritardo, nuove prospettive di "indagini" su quella che fu, negli ultimi due secoli, la ricchezza culturale del "Capoluogo della Provincia di Molise".


Si ringraziano, per la disponibilità e per l'amicizia dimostrata, il professor don Michele Tartaglia, arciprete di Campobasso, parroco di Santa Maria Maggiore (Chiesa Cattedrale); il dottor Daniele Ferrara direttore del Polo Museale del Veneto; il professor Rodolfo Papa, Accademico Pontificio, Presidente della Accademia Urbana delle Arti; Stefano Vannozzi, restauratore, studioso e ricercatore nonché il dottor Mario Gravina esperto amante dell'arte fotografica.
  

Bibliografia

Silvia Sbardella, Tra donazioni e sparizioni le vicende ottocentesche dei dipinti della chiesa della Santissima Trinità di Campobasso, Napoli Nobilissima, quinta serie – volume V – fascicoli III-IV- maggio agosto 2004
Amedeo Trivisonno, Memorie, 1989
Angelo Tirabasso, Breve Dizionario Biografico del Molise, 1932
Alfonso Fillipponi, Orazione Inaugurale per la nuova Chiesa della SS. Trinità aperta in Campobasso a' 14 ottobre 1829, 1829
AA.VV., Oratino, pittori scultori e botteghe artigiane tra XVII e XIX secolo, 1993
Corrado Carano, Sognando il Rinascimento. Amedeo Trivisonno, pittore Molisano, 1992
Filippo Pece, La Cattedrale di Campobasso, 2006
Giuseppe Di Fabio, I vescovi di Bojano e di Campobasso-Bojanio, 1997
Giuseppe Di Fabio, Storia della chiesa della SS. Trinità in Campobasso, 1999
Giuseppe Di Fabio, Nuovo Seminario Diocesano di Campobasso, 2003
Michele Ruccia, Mons. Alberto Romita vescovo di Bojano-Campobasso, 1942
Padre Eduardo di Iorio, Campobasso – itinerari di storia e di arte, 1978
Padre Eduardo di Iorio, Campobasso nel 1688, 1981
Gianbattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni,, volume II, 1915



note

8 Giovan Battista Lama ( Napoli 1673 ca. - 1748) fu attivo prevalentemente nel regno di Napoli. Oltre che nell'allora capitale, le sue opere sono presenti ad Aversa, Lecce, Bari, Monopoli, Sorrento, e Belvedere Marittimo (CS). La sua formazione pittorica si collocò nell'ambito della scuola di Luca Giordano, sebbene più saldi punti di contatto siano individuabili con Paolo De Matteis. L'influsso di quest'ultimo è oltremodo evidente tanto che, nel passato, al De Matteis furono attribuite alcune opere riconosciute oggi, con certezza, del Lama.  Risale, probabilmente,  al 1700 il vero e proprio esordio come pittore "pubblico". In quell'anno, infatti, morì Nicola Russo, autore del ciclo di decorazione della prestigiosa cappella Sannazzaro nella chiesa di S. Maria del Parto a Napoli ed al Lama vennero commissionati, a completamento dell'opera, alcuni Putti reggifestone su tela per l'arco che immette nella cappella posta dietro all'altare maggiore. In questi dipinti, tra i primi tramandatici dalle fonti, emergono con chiarezza i segni precoci di quella sensibilità rococò che è uno dei tratti caratteristici della sua produzione. In alcuni lavori, inoltre, è ravvisabile un'anticipazione rispetto al gusto dell'Arcadia che si affermerà, anche a Napoli, in un breve volgere di anni. L'evidente consonanza con le tematiche dell'Arcadia può essere considerata, nel caso del Lama, come termine dialettico di ispirazione rispetto al fortissimo polo d'attrazione che si venne costituendo a Napoli, sin dagli anni venti del Settecento, attorno alla figura del Solimena. In questo periodo vanno collocate due tele, conservate al Kunsthistorisches Museum di Vienna, Agar nel deserto ed Il sacrificio di Isacco, in cui è evidente la suggestione dell'intensità espressiva di Solimena, sebbene tradotta in un linguaggio più dimesso. È di fondamentale importanza ricordare il viaggio che nel 1723 il Lama fece a Roma, insieme al cognato De Matteis e con il pittore G. Mastroleo, in occasione del quale ebbe modo di frequentare e confrontarsi con la bottega di Carlo Maratta.
Dopo aver recepito dal Solimena -ma anche dal marattismo romano- un'istanza di fondamentale chiarezza formale di matrice classica, egli recuperò l'eleganza compositiva di De Matteis e perfino l'aerea luminosità di Luca Giordano, con un risultato di estrema raffinatezza.
Giovan Battista Lama seppe mantenere sempre una posizione di grande apertura e di dialogo critico tanto rispetto alla pittura contemporanea, quanto a quella della tradizione, dimostrando con ciò la sua piena comprensione della difficile lezione del suo maestro Luca Giordano. Secondo la testimonianza di alcuni discepoli l'artista volle essere sepolto nella chiesa di Montecalvario, ma della sua tomba non esiste però alcuna traccia, probabilmente essa andò perduta nei restauri ottocenteschi della chiesa.
(fonte Rossella Faraglia "Giovan Battista Lama" - www.treccani.it/enciclopedia)

9 Costantinopoli fu la capitale dell'Impero romano d'Oriente, voluta da Costantino il Grande a cavallo del Bosforo e del Corno d'Oro, sul luogo dell'antica Bisanzio. La città ebbe fin dai primi tempi un culto tutto particolare, per la Madre di Dio, la Vergine Theotokos.
Nel V secolo, Teodosio II (408 - 450) eresse a Costantinopoli tre piccole basiliche mariane in luoghi detti Blacherne, Chalcopratia (mercato del bronzo) ed Odeghi (guide). La denominazione Odigitria, da odos, "via", significa "Colei che indica la via". Per alcuni il nome deriverebbe dal fatto che i condottieri (odigoi) si recavano in questo monastero a pregare, mentre per altri dal nome della via della città imperiale in cui vi era la Chiesa detta "delle guide". L'immagine venerata agli Odeghi rappresentava la Vergine col Bambino in braccio. Secondo la leggenda si sarebbe trattato di una delle tre icone dipinte da San Luca quando la Vergine era ancora in vita, e sarebbe stata portata da Eudosia, moglie dell'imperatore Teodosio il Giovane, dalla Terra Santa fino a Costantinopoli. Questa celebre raffigurazione fu considerata la protettrice della città e di tutto l'impero d'Oriente. Per volontà degli imperatori essa sfilava alla testa dei loro cortei trionfali, come guida ed indicatrice della via, avvalorando in questo modo il titolo di "Odigitria".
Le lotte iconoclaste del 700, e la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453, determinarono l'importazione delle iconografie, care al popolo cristiano d'Oriente, nei territori dell'Italia Meridionale. Anche usi, tradizioni, costumanze liturgiche ed architettura bizantina fecero sentire il proprio influsso, innestandosi nella cultura storica e popolare del Sud. Non poche furono la Immagini della Madonna di Costantinopoli la cui devozione si sviluppò in vari centri della Puglia (Bari, Acquaviva delle Fonti), Abruzzo e Molise (Ortona e Portocannone), Campania (Ischia, Terranova e Felitto), ma fu soprattutto Napoli ad essere antesignana del culto verso la vergine Odigìtria
fonti (cir.campania.beniculturali.it - www.diocesidicapua.it - www.mariadinazareth.i)

lunedì 13 ottobre 2014

APPROFONDIMENTI ARALDICI SUGLI STEMMI CAMPOBASSANI DEI MOLISE E DEI MONFORTE - GAMBATESA.

APPROFONDIMENTI ARALDICI SUGLI STEMMI CAMPOBASSANI
DEI MOLISE E DEI MONFORTE - GAMBATESA.

di Paolo Giordano e Salvatore Scivales.


ARCHEO MOLISE
OTTOBRE DICEMBRE 2013





E’ opportuno coinvolgere ed interessare un pubblico sempre più vasto all’Araldica (Scienza del Blasone), una dottrina ancora incredibilmente attuale per lo studio della Storia e delle Società. Cogliamo l'occasione di farlo presentando un argomento utile ad approfondire la conoscenza degli stemmi feudali presenti sulle porte della cinta muraria della città di Campobasso.

“Altro stemma di altra famiglia vedesi sull’arco di porta San Paolo”. E’ così che abilmente aggira l’ostacolo Antonino Mancini (Mancini 1942). Identica è la scelta di Vincenzo Eduardo Gasdia (Gasdia 1960), seguito a ruota da padre Eduardo Di Iorio (Di Iorio 1978). Entrambi gli studiosi non si sbilanciano, né tantomeno si avventurano nel tentativo di giungere ad un’attribuzione: “sull’arco di porta San Paolo si può vedere un altro stemma, che non è né della municipalità né di casa Monforte”.
A provocare “un danno” è sicuramente il Touring Club (Touring Club 2005) che osa laddove altri si astennero. Nelle pagine riservate a Campobasso si legge: “porta San Paolo (stemma Monforte-Gambatesa)”.
stemma su Porta San Paolo
 a Campobasso
Nella certezza che fosse un’affermazione infondata, poiché ben altre erano le insegne di questi feudatari, restava, comunque, ignota la paternità dell’arme campobassana che nessuno degli autori citati descrive: “alla banda caricata di tre scudetti”, ovvero con una fascia obliqua contenente tre scudi e sormontata da una precisa data, cioè l’anno 1374.
Di Sicuro un’attenta ricerca nell’articolato mondo dei blasoni avrebbe consentito di pervenire molto prima alla sua corretta identificazione.
stemma coniugale
Monforte - Molisio
La traccia fondamentale per un’indagine storico-araldica è stata offerta dai lavori di consolidamento del Castello di Campobasso. Scrive l’allora soprintendente Mario Pagano (Mario Pagano 2006) che “nel 1991, durante lo smontaggio di una scarpa eretta a ridosso dell’originaria cortina quattrocentesca” furono rinvenuti frammenti di protomaiolica (antico prodotto meridionale in ceramica rivestita con smalto) e di vasellami. Su uno di questi ultimi c’è uno stemma coniugale con i simboli delle due famiglie. Lo sposo a destra (sinistra per chi guarda) “alla croce accantonata da 4 rose”, la sposa a sinistra (destra per chi guarda) “alla banda caricata da tre scudi”: lo stesso che domina da porta San Paolo! 
Fatte le debite riflessioni, aiutati dalla data e da altri dettagli come la grande “R”, che firma uno dei reperti del maniero, non si può che identificare gli sposi in Riccardo Gambatesa (se I o II ne ragioneremo in seguito) e Tommasella di Molisio, ultima rampolla della sua stirpe ad esser stata Signora di Campobasso. I discendenti di Rodolfo de Moulins si fregiavano, però, di una “sbarra di azzurro” senza alcun altro simbolo, ma il mondo dell’araldica è ben complesso, per cui nel corso dei secoli saranno intercorse chi sa quali variazioni, le cui cause sono tutte da scoprire.
Una curiosità da rilevare è la presenza in Campobasso di un altro manufatto simile a quello di porta San Paolo, però con “sbarra”, ubicato in vico I Sant’Andrea. Si tratta forse di un semplice errore del lapicida oppure esso era collocato su una struttura che presentava un elemento speculare, come lascerebbe supporre la sua particolare inclinazione.
stemma Vico Sant'Andrea
Campobasso
 Una conferma, infine, per tutto il nostro ragionamento si trova a Cercemaggiore, nel Convento di Santa Maria della Libera, ed è il noto stemma coniugale (Vannozzi, Miele 1980, Millemetri 2011) che “celebra” le nozze tra Alberico Carafa e Giovannella di Molise. Ancora una partitura con a “destra” le insegne del marito ed a “sinistra” quelle della moglie.
Al termine di questo processo deduttivo, quindi, asseriamo, senza tema di smentita che su porta San Paolo campeggia l’emblema dei Molise. Inoltre visitando, tra i tanti, il sito dell’archivio storico di Crotone ci si imbatte nell’antica famiglia aristocratica crotonese dei Nola de Molise avente “d’oro, alla banda “torchina” caricata da tre scudi”: in parole povere un vessillo identico a quello di donna Tommasella. 


stemma coniugale Cercemaggiore
 (foto Franco Valente)

A questo punto la naturale successiva fase di studio ci riconduce al di lei consorte. Chi era costui? Riccardo I o il nipote di questi, Riccardello, generato dalla figlia Sibilia? E di conseguenza lo stemma dei Monforte di Campobasso è realmente il “loro” oppure è, come da tempo sospettiamo, l’arme esclusiva della famiglia Gambatesa?
La famiglia Monforte, che vantava origini francesi (Monfort) esibiva “d’argento al leone d’azzurro tenente con le branche anteriori uno scudetto d’oro caricato di 5 code d’ermellino di nero”.  
Eppure in nessuna delle nostre Terre si trova un simile stemma. Nelle città che furono dei Monforte-Gambatesa, invece, è ripetutamente scolpita “la croce d’argento accantonata di rose su fondo d’oro” (Croce 2001) ovvero “di rosso alla croce scorciata di oro, accantonata da 4 rose dello stesso” (Padiglione 1914). 
Al di la dei “colori” il dato rilevante è che solo nel “Contado di Molise” risulta diffuso lo scudo con croce e rose. A Campobasso ve ne sono ben 4: Porta Sant’Antonio Abate, atrio del Comune (proveniente dalla distrutta Porta San Leonardo?), arco dell’ingresso sul ponte levatoio del Castello e pietre angolari inglobate nel torrione meridionale dello stesso. A Tufara se ne possono ammirare “uno sulla porta del centro storico ed uno sul campanile della locale parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo”(De Benedittis ne "Il Castello di Tufara" AA.VV. 1990).
Stemma Monforte Gambatesa
atri del comune di Campobasso
Infine a Santa Maria della Strada (Matrice) è conservata un’acquasantiera con scudo a testa di cavallo contenente l’oramai celebre croce accantonata. Necessiterebbe sicuramente “allargare” le ricerche, appurando, ad esempio, quali fossero le insegne di Federico Monforte detto Gambatesa, feudatario di Rocca d’Evandro, che nel 1528 osò ribellarsi a Carlo V (Gleijeses 1981). Quel suo castello fu preso dalle bande del Maramaldo ed il tesoro di Montecassino, ivi nascosto, divenne preda degli assalitori. Filiberto Campanile (Campanile 1610) ritiene, però, che costui non abbia relazione alcuna con i “nostri” Monforte Gambatesa.
Facendo un passo indietro stupisce alquanto che finanche lo “storico della Famiglia Monforte”, il vescovo illuminista Alessandro Maria Kalefati (Kalefati 1778), nella sua opera, riprodotta nel 2013 in copia anastatica, ignori le quattro rose in favore del “leone”.  
Non è da escludere che l’episcopo non abbia mai visitato il Molise. All’alto prelato fa eco, a distanza di più d’un secolo, il Trombetta che, in una sua famosa cartolina, affianca appunto il leone, con scudo e code d’ermellino, ad un ritratto del conte Cola (presumibilmente ispirato all’incisione ottocentesca del napoletano Carlo Biondi). 
cartolina trombetta
con ritratto del conte Cola e lo stemma
 "Monfort" di Francia

Il Masciotta (Masciotta 1914) nelle notizie feudali relative a Tufara tralascia totalmente il prenome Monforte: titolari ne furono i Gambatesa la cui signoria finì nel 1465. Per spiegare tale data egli rimanda alle vicende legate ai Gambatesa (poi Gambatesa-Monforte) conti di Campobasso e si riferisce alla cacciata di Nicola II (il conte Cola) da parte del re Ferrante.
Benedetto Croce (Croce 2001), più o meno volutamente spinge ad ulteriori riflessioni instillando il dubbio, poiché scrive quasi indistintamente di Gambatesa, Monforte e Monforte-Gambatesa. Il De Gingins, in un lavoro rimasto inedito (Croce 2001), negò che Cola di Campobasso fosse “di quella famiglia” (Monfort), perché in realtà era un Gambatesa, e che ne aveva preso il nome per rivendicare un’eredità da un “ramo” in via di estinzione. Ma “ciò non è esatto -ribatte Croce- perché il conte di Termoli, al quale si allude, era esso stesso un Gambatesa, e perché questi Gambatesa erano veramente dei Monforte, che, per essersi estinta la famiglia Gambatesa, avevano aggiunto al loro proprio un secondo cognome: Monforte alias Gambatesa, come si trovano chiamati”. Infatti Riccardo di Gambatesa (anni ‘70 del 1200 - 1326), “ostiario e familiare regio”, non ebbe figli maschi. Nominato tutore di Giovannuccio Monforte, maturò verso di lui un così profondo affetto da concedergli la mano della figlia Sibilia. Per salvare dall’estinzione il suo casato chiese ed ottenne, nel testamento, che il nipote Riccardello aggiungesse al proprio cognome quello materno: Riccardo II, figlio di Giovanni fu pertanto il primo Monforte-Gambatesa. Ciò lascia supporre, con ragionevole certezza, che venne fatta propria anche l’Arme di quell’antica ed importante schiatta.
ritratto del Conte Cola
(archivio Giovanni Fanelli)
 Per forza di cose eccoci di nuovo al matrimonio tra Tommasa e Riccardo i cui fasti furono impressi sulla ceramica oggi conservata nel Museo Sannitico. Tra i genealogisti regna una certa confusione. Per Croce e Gasdia egli era Riccardo II (Riccardello) e quindi si dovrebbero raccogliere altre “prove” per dimostrare che questi, oltre al “nomen”, avesse assunto anche il vessillo. Accettando invece la versione del Campanile, del Kalefati o del Masciotta (Campanile 1610, Kalefati 1778, Masciotta 1914), per i quali la figlia di Guglielmo de Molisio sposò Riccardo I, “l’insigne difensore di Genova ai tempi di re Roberto” d’Angiò, si è dinanzi al più classico dei sillogismi: lo sposo è il Gambatesa, lo stemma è il suo, “le quattro rose” sono esclusive dei Gambatesa. Tanto basterebbe per trarre delle conclusioni, ma continuando a consultare il vasto maremagnum offerto da internet si scopre che in Piemonte erano signori di Roure e consignori di Maria dei Gambatesa aventi “di rosso la croce scorciata, accantonata da quattro rose, il tutto d’oro”, così come anche riportato in Padiglione (Padiglione 1914). Potrebbe forse trattarsi di qualche discendente trasferitosi ai confini con la Francia? La croce è “scorciata”, cioè i quattro bracci, uguali, non toccano i lembi dello scudo mentre l’emblema Gambatesa-Monforte ha la croce piena, vale a dire che arriva a toccarne i bordi. Come per i Molise, però, non si può escludere si tratti di una variante generatasi nel tempo. Lo stesso Gasdia li cita tutti e due (Gasdia 1960) associandoli entrambi ai signori di Campobasso

Stemma Riccardo Gambatesa
(immagine Federico Bona)
In nostro favore, a fugare ogni dubbio, un testimone d’eccezione nella persona di Federico Bona, fondatore e gestore del sito “Blasonario della famiglie subalpine”. Egli, da noi interpellato, ha senza dubbi o incertezze tempestivamente risposto ad un nostro quesito: “i feudi di Roure e di Maria nel Nizzardo furono di Riccardo di Gambatesa Siniscalco di Piemonte”. Del resto approfondendo lo studio della sua biografia si constata che costui, oltre che giustiziere dell’Abruzzo Ulteriore, fu siniscalco di Folcarquier e di Provenza. Originaria di questa provincia era la nobile Caterina, con cui contrasse matrimonio, acquisendo un sempre più saldo legame con quell’area geografica.
Una doverosa osservazione è che solo con Nicola II “Monforte Gambatesa Molise De Cabannis” (Gasdia 1960) scompaiono in via definitiva tutti gli altri cognomi. Probabilmente perché il conte Cola, personaggio tanto grande quanto ambizioso, l’unico a poter reggere il confronto con il suo illustre avo, cercò di nobilitare ancor più la sua origine ricollegandosi ai Monfort (francesi) elidendo, ingiustamente, il cognome Gambatesa che comunque non era davvero secondo a nessuno. Tanta fu, infatti, la fama di Riccardo di Gambatesa, conosciuto quale virtuoso e “savio signore”, vincitore in battaglia dei Savoia e dei Visconti, che in qualità di vicario (viceré) difese con somma abilità bellica, ed elevate capacità di comando, Genova da un assedio che il Villani (http://www.treccani.it/enciclopedia/riccardo-gambatesa_(Dizionario-Biografico) non esitò a paragonare a quello di Troia.
Lo stemma dei Monforte di Campobasso, quindi, non è il blasone di un ramo cadetto e, pertanto di minor lignaggio, di una discendenza d’oltralpe, bensì è la firma lasciata nella Storia da una Famiglia tutta Molisana, quella dei Gambatesa, che la Storia stessa ha contribuito a scrivere.



Si ringraziano Franco Valente e Stefano Vannozzi per le piacevoli chiacchierate, i preziosi suggerimenti e gli amichevoli nonché stimolanti dissensi. I costruttivi confronti con i due studiosi hanno, anche se indirettamente, contribuito alla la genesi di questa nostra riflessione.


Bibliografia:

AA.VV., 1990, Il Castello di Tufara, Lanciano.
AA.VV., 2011, Millemetri, la rivista di Cercemaggiore n° 2, Cercemaggiore.
Croce, Benedetto. Ristampa 2001. Croce: Cola Di Monforte, conte di Campobasso, Campobasso.
Padiglione Carlo. 1914, Trenta Centurie di Armi gentilizi, Napoli.
Di Iorio, Eduardo. 1978, Campobasso itinerari di storia e di arte, Campobasso.
Filiberto Campanile. 1610, L’armi, overo insegne de’ nobili, Napoli.
Gasdia, Vincenzo Eduardo Gasdia. 1960, Storia di Campobasso, volume II, Verona.
Gleijeses, Vittorio, 1981, Castelli in Campania, Napoli.
Kalefati, Alessandro Maria. 1778, Dissertazione istorico-critica della famiglia Monforte dei conti di Campobasso, Napoli.
Mancini, Antonino. 1942, Campobasso nel 1742, Campobasso.
Masciotta, Giambattista. 1914,: Il Molise  volume II, Napoli.
Miele, Michele. 1980, La chiesa del Convento di Santa Maria della Libera di Cercemaggiore,
Napoli
Pagano, Mario. 2006, Il più antico pavimento di piastrelle in protomaiolica nel regno di Napoli dal castello di Campobasso, di Riccardo II Gambatesa Monforte, Campobasso.
Touring Club Italiano. 2005, Abruzzo e Molise vol n°22, Milano.


Sitografia:

http://www.archiviostoricocrotone.it/doc/nola_molise.html