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martedì 16 agosto 2016

Il mistero della tomba di Delicata Civerra. La presunta sepoltura (scomparsa) dell'eroina campobassana


IL MISTERO DELLA TOMBA DI DELICATA CIVERRA

Il Quotidiano del Molise
del 31 marzo 2016

di Paolo Giordano

Delicata Civerra è indubbiamente tra i personaggi simbolo della Storia di Campobasso. 
la chiesa di San Giorgio
in una foto inizio 1900
Negli archivi parrocchiali si trovano più dame così "nomate". La nostra eroina mori nel 1587 e molti raccontano di aver consultato il "libro della Chiesa di San Giorgio" (con le annotazioni dei defunti dal 1541 al 1711) che la citerebbe. Una verifica non è allo stato delle cose possibile, poiché la sorte dell'antico manoscritto non è riscontrabile.
Lo studioso Uberto D'Andrea scrive di clamorose omonimie: attraverso un atto del 1587 si apprende delle messe che Delicata Civerra faceva celebrare in memoria del defunto marito, Giacomo Caruso. Ed ancora... nel libro dei battezzati di Santa Maria Maggiore (anno 1590) fu registrato il battesimo di Delicata, figlia di Francesco Civerra e Diana Di Lembo.
Quindi tale nome era abbastanza diffuso e ciò, comunque, non può che deporre a favore del fatto che possa essere veramente vissuta la giovane campobassana, protagonista della nota romantica vicenda. Di sicuro il dato importante, che coinvolge ogni categoria di studiosi aprendo uno spaccato sulla Storia Locale, è che il contrastato amore tra Fonzo e Delicata riconduce alle lotte tra le due maggiori confraternite (Crociati e Trinitari) per il controllo socio-politico della Campobasso tardo cinquecentesca.
Pur essendo inevitabile un parallelismo con Montecchi e Capuleti, va evidenziato che, mentre Giulietta e Romeo, personaggi di pura invenzione totalmente decontestualizzati, sono stati eletti nel globo terraqueo quali emblemi dell'Amore Infelice, minor fortuna hanno avuto i nostri due amanti.
Ulteriore, e non ultimo, spunto di riflessione si è avuto domenica 27 marzo, Santa Pasqua! Un nutrito gruppo di turisti provenienti da Monopoli, nel visitare la chiesa di San Giorgio Martire, era alla improduttiva ricerca di quello che sarebbe potuto essere il sepolcro di Delicata Civerra. Li aveva incuriositi la guida cartacea che consultavano, la quale ne parlava... come ne "parla" abbondantemente internet (e non solo in italiano) in diversi siti, molti dei quali istituzionali.
La "tomba di Delicata Civerra"
in una foto del 1982
Ma prima del web due sono le prime più importanti ed autorevoli testimonianze di quella sepoltura. Giambattista Masciotta nel II volume de "IL MOLISE dalle origini ai nostri giorni" (1915) nel descrivere la chiesa di San Giorgio annota "L'interno è diviso in tre navi, in una delle quali (quella di destra) sorge la modesta (sic) tomba di Delicata Civerra". L'arciprete Nicola Tarantino, nel suo "Il gran Martire S. Giorgio" (1926) riporta "Degno pure di essere ammirato il Cristo scolpito in pietra sulla tomba di Delicata Cìverra, nobile fanciulla di Campobasso..."
E' legittimo porsi l'ineluttabile domanda: dov'è finita la presunta sepoltura?
Prova ne resta una fortuita fotografia scattata nel 1982. Il parroco del tempo, il compianto don Giovanni Battista, confermò la versione del Tarantino. Trattavasi, appunto, di un bassorilievo con un' "imago pietatis", contemplazione della Passione, utilizzata su altari, paliotti e tombe (generalmente sovrapporta).
Dopo i restauri degli anni 80/90 del 1900, la chiesa romanica di San Giorgio (unitamente a quella di San Bartolomeo) fu restituita alla Città di Campobasso, ma nessuna traccia v'era più della lapide che ancor oggi viene ricordata come la tomba della giovane sventurata fanciulla, morta per amore.

Insomma... un'ennesima vestigia del Nostro Passato si sarebbe dissolta nell'oblio!

"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA" di Vittoria Todisco. Ricordi ancora vivi e scatti inediti di un giovanissimo Pierluigi Giorgio


"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA"

Il Quotidiano del Molise
del 14 agosto 2016
di Vittoria Todisco

Noi venuti al mondo negli anni ’40 per “fare il mare” andavamo in colonia.
colonie marine anni '40-'50
Adesso arrivano in spiaggia ad orario comodo e non fanno a tempo a spogliarsi che hanno già fame. Le mamme tirano fuori da enormi borse griffate spicchi di pizza che trasudano olio. Loro, i ragazzini venuti al mondo dal 2000 in poi, le divorano senza staccare gli occhi dal telefonino di ultima generazione che maneggiano con navigata abilità. Il mare manco guardano di che colore è. L’altoparlante diffonde un suono di percussione sempre uguale, un rumore interrotto e, se si è particolarmente sensibili, si avverte un’accelerazione dei battiti cardiaci che nulla hanno in comune con l’emozione che la musica dovrebbe procurare. Dove sono andate a finire le canzoni dell’estate: “Una rotonda sul mare” e, se non proprio “A Saint Tropez”, almeno “Vamos a la plaja”. Questi ragazzini che sfoggiano capigliatura da mohicani sono la nostra discendenza, i nostri nipoti, i figli dei nostri figli, ma tra noi e loro, c’è una distanza abissale che è inutile cercare di impegnarsi a colmare.
Sono stati tanti i figli nati nel primo dopoguerra che hanno fatto la colonia marina: il mare e il sole erano l’antitesi alla tubercolosi molto presente in tutta Europa che mieteva vittime soprattutto tra i bambini. Nate verso la fine dell’800 la loro realizzazione venne affidata ai più insigni architetti dell’epoca; una risorsa che si intensifica ancor più nel periodo fascista rendendole anche luogo di propaganda e costruzione dell’uomo nuovo voluto dal regime: forte nel fisico un po’ meno nell’intelletto. Nel dopoguerra caduto il fascismo si ritenne che le colonie fossero ancor di più una buona iniziativa per sostenere le famiglie meno agiate e offrire a bambini e ragazzi un periodo di 30 giorni l’anno di sole, mare ed attività fisica e ludica. Dal 1948 al 1952 i figli del proletariato d’estate partivano per la colonia. Chi scrive ha vissuto questa esperienza per ben tre stagioni: due volte a Termoli, la terza sobbarcandosi un interminabile viaggio in treno, a Senigallia, nelle Marche.


Per noi bambini il viaggio in treno rappresentava una novità, un’avventura che iniziava già prima della partenza. Ci radunavano tutti alla Gil. Le nostre mamme ci salutavano lasciandoci in lacrime e digiuni agli addetti alla struttura. Interminabile, ci pareva il viaggio in treno e, quando dai finestrini si cominciava a scorgere il mare l’emozione era tantissima. Le onde bianche e spumose che si frangevano sulla riva venivano chiamate cavalloni ed entravano in un gergo nuovo anche la nostra fantasia galoppava immaginando di poter vivere avventure temerarie e sconosciute nelle quali il vento, il sole e il mare fossero le uniche forze della natura a farci compagnia. 
A Termoli eravamo ospitati nella scuola elementare. Le aule erano state trasformate in dormitori, ci avevano consegnato un pagliaccetto a quadretti bianchi e rosa, maglietta bianca e cappellino, scarpe con la suola di corda.
Ciascuna squadra aveva la sua vigilatrice: giovani insegnanti o aspiranti tali spesso costrette a far le veci della mamma. Ricordo ancora la direttrice del primo anno, 1949. Certo non ricordo quasi nulla del suo aspetto, del resto era quella una figura distante da noi bambini. Ricordo che pativamo la fame, il cibo era scarso e l’obbligo ad irrobustire i nostri gracilissimi fisici era affidato al sole e al mare. Perché questa direttrice mi è rimasta nella memoria? Perché ci obbligava recitare ogni giorno estenuanti orazioni. Una mattina ci svegliarono che non era ancora sorto il sole.
Non capivamo cose stesse accadendo e dopo averci fatte vestire alla svelta ci condussero in stazione dove poco dopo giunse il treno bianco per Lourdes che si fermò sul binario mentre noi in fila cantavamo Evviva Maria.
L’ultimo giorno di colonia la direttrice volle salutarci, ci radunano nel corridoio del primo piano dell’edificio e la conclusione del suo lungo discorso per noi in-comprensibile penetrò bene nella mia mente giacché rivelò l’indole e l’aspirazione di questa donna alla quale erano state affidate centinaia di creature: addio bambine sono sicura che non ci vedremo più ma certamente ci incontreremo in Paradiso.
L’anno successivo mi consideravo una veterana e facevo forza su me stessa per non farmi prendere trop-po dalla nostalgia che soprattutto di sera, come succede anche ai naviganti: intenerisce il core. Eravamo intruppate come piccole soldatesse e andando e tornando dal mare sotto il sole cocente doveva- mo cantare per attestare vitalità e buon umore.
Son marinaio marinar della marina tengo le chiavi dell’oro dell’argento son marinaio di questo basti- mento finché l’Italia più libera sarà. In spiaggia ci radunavano tutte sotto una copertura di cannucce e si giocava alle cinque pietre, un gioco di destrezza ed abilità nel muover le mani e far saltare cinque pietre. Il vitto, rispetto all’anno precedente, era migliorato. Ma una volta nell’edificio ci sentivamo in  carcere  mentre dal- l’esterno ci giungevano le voci dell’estate termolese alla quale eravamo estranee, neanche spettatrici giacché i vetri delle finestre erano  schermati con una odiosissima carta azzurrina. Un’ala dell’edificio affacciava su un cinema all’aperto e alla sera con le finestre del bagno aperte ci si addormentava con la voce di Amedeo Nazzari o quella vellutata di Tina Lattanzi, doppiatrice di Greta Garbo e di molte altre attrici straniere, ed era un po’ come ave- re accanto la mamma e il papà.
Pierluigi Giorgio e la madre
Quell’anno la direttrice era bella, attenta e severa, a detta delle vigilatrici. Aveva con se il figlioletto, un bambino biondo e vivace che le vigilatrici faceva a gara a spupazzarsi. Noi sentivamo un po’ di invidia per quel piccolino che aveva la fortuna di stare con la sua mamma. Guardavamo quei riccioletti biondi da cherubino, la rotondità delle guance paffute e ci cat-turava la sua risata argentina piena di una gioia che nasceva da un gioco appe-na concluso o che stava per iniziare.
Noi tutte, eravamo coscienziose della necessità di quel soggiorno estivo che però rappresentava un doloroso  strappo con la nostra casa e le piccole quotidiane abitudini ma avvertivamo la responsabilità di un sacrificio che avrebbe dovuto giovarci e facevamo nostro l’obbligo di comportarci da donnine consce che altrettanta nostalgia veniva sofferta dal- le nostre famiglie.
Pierluigi Giorgio
In colonia non ricordo di aver allacciato amicizie tra le mie coetanee, a parte quelle che già conoscevo. 

Stranamente però, l’unico al quale sono ancora oggi legata da affetto, amicizia e rispetto è proprio quel bambino biondo verso il quale ho per la prima volta provato un sentimento odioso qual è l’invidia. Egli risponde al nome di Pierluigi Giorgio.


domenica 14 agosto 2016

"RICICLO" il grido degli artisti. Donatella di Lallo, Justine Casertano, Simona D'Alessandro ed Antonio Della Porta in Mostra nella sala AXA di Campobasso


"RICICLO" il grido degli artisti!!!

Il Quotidiano del Molise
del 22 marzo 2012
di Paolo Giordano

Ancora una volta la Palladino Company ha aperto le sue porte all’arte e, questa volta, lo ha fatto con un intento altamente educativo. Non è una scoperta il nostro vivere in un’epoca di sfrenato consumismo, totalmente sommersi dalle immondizie soprattutto per la crescente produzione di rifiuti, eccessiva rispetto alle capacità di smaltimento. Inoltre bisogna tristemente prende atto che la Comunità Europea ha diffidato il Molise poiché dal 2009 non ha “fatto passi in avanti” nella raccolta differenziata. Dal 17 marzo nella sala AXA con la collettiva “Riciclo” quattro artisti molisani lanciano il grido d’allarme attraverso una proposta costruttiva ed affascinante. Arte ed artigianato si fondono in un elegante connubio che guarda al futuro attingendo alla Tradizione. 
Con riuso e riutilizzo si “producono” opere/oggetti belli e soprattutto di uso quotidiano. Però a dispetto del titolo provocatorio della mostra bisogna precisare che non si tratta semplicemente di “riciclare” bensì di “creare”. Pezzi di vetro e bottiglie in plastica (pvc) diventano eleganti monili e raffinati gioielli nelle mani della notissima Justine Casertano. Famosi i suoi
un "piatto" di Justine Casertano
meravigliosi piatti decorati con colori e disegni in stile personalissimo. Pezzi unici come, del resto, quelli degli altri espositori. Gioie ed accessori nascono dalle mani di Antonio Della Porta. 
una "sedia" di
Donatella di Lallo
Tra le materie prime utilizzate ci sono intonaci, laterizi e sanitari dismessi. Il Della Porta è specializzato nella lavorazione della ceramica ed ha brevettato una tecnica con cui il cotto viene ricostruito a freddo.
Nell’era dei giornali telematici dà soddisfazione constatare che il caro vecchio quotidiano cartaceo, dopo esser stato letto, ancora ha molto da dare e dire. Donatella Di Lallo e Simona D’Alessandro, in modi differenti, utilizzano la carta stampata. La prima, celebre per le “sculture comode”, manipolando la cartapesta genera sedie e mobilio (usando come scheletro anche vecchie suppellettili), plasma ciotole, bracciali e tanto altro in tinte dalle tonalità calde e vivaci. La D’Alessandro, invece, intrecciando giornali realizza svuota tasche, oggettistica per ufficio/studio, elementi d’arredo e -soprattutto- borse e borselli i cui accessori sono materiali di recupero: freni di bicicletta, cinghie di motori, tubi per acquario. Le pagine stesse delle riviste adoperate fungono da artistici decori. E se piove? Ci ha confessato l’autrice che: “una volta mi si è rovesciata una bottiglia d’acqua nella borsa… ancora la uso tranquillamente”.
La mostra, patrocinata dalla Provincia di Campobasso, sarà visitabile fino al 27 marzo però chi era all’inaugurazione ha potuto apprezzare i canti di Mariella Brindisi e Mario Mancini: due ricercatori, che hanno raccolto la tradizione orale dei canti popolari della valle del Fortore. Un tesoro destinato a scomparire ed invece preservato da un duro lavoro a suo modo “di recupero e riutilizzo”.
Gradevole e simpatica la conclusione con un buffet quanto mai originale: "tarallucci" e vino!
Un ironico menù gustato con estremo piacere dal folto pubblico intervenuto


un'opera di Donatella di Lallo



"La fortuna creativa nel simbolismo magico". Donatella di Lallo attraverso le sue opere, riciclando,evoca atmosfere di terre lonatane


"La fortuna creativa nel simbolismo magico".  
Donatella di Lallo, riciclando, 
 attraverso le sue opere evoca atmosfere di terre lonatane

Il Quotidiano del Molise
del 02/04/2011
di Paolo Giordano

“La fortuna creativa nel simbolismo magico” è il “titolo” della mostra di Donatella di Lallo visitabile dal 2 al 15 aprile presso la Palladino Company di Campobasso. In esposizione alcune sculture che l’occhio razionale degli adulti vedrà semplicemente come oggetti di cartapesta. Ma il “fanciullino” (dimorante in ognuno) percepirà la magia sprigionata da un mondo fantastico. Non si tratta di semplici sedie, bensì di autentici troni sontuosamente ornati e degni di mitici sovrani.
L’autrice impasta, modella, domina la cartapesta con abilità, inventiva e creatività. Ha alle sue spalle una trentennale esperienza artistica che, partendo da pregevoli quadri “classici” sia nello stile che nei soggetti, è giunta alle “maschere”, per approdare -un domani- a chi sa quali sconosciuti nuovi lidi. Donatella con molta umiltà ha sempre evitato le luci della ribalta, eppure ha un curriculum di tutto rispetto. In Molise ha esposto a Guardialfiera (2000), Torella del Sannio (2009), Oratino e Pesche (2010). A Campobasso è stata accolta dal Circolo Sannitico (1990) e dai Grandi Magazzini Teatrali (2009). Ma anche Zagabria (1989), Merano, Bolzano, Foggia (1998) e Viterbo
(2006) hanno ospitato le sue creazioni. Decine di quotidiani, periodici e riviste specializzate d’arte ed arredamento hanno trattato della sua produzione ed ha all’attivo il catalogo della personale “Sculture Comode” (2009). Le sue creature rimandano immediatamente all’arte etnica. I colori vivaci richiamano le musicalità latino-americane. L’aura sprigionata trasporta nelle realtà oniriche di Lewis Carroll, il padre di Alice nel paese delle meraviglie.
D’obbligo, in considerazione dei materiali di recupero utilizzati, un accenno alla “riciclarte” con la sua valenza sociale. Infine non è secondario l’essere al cospetto di stupendi e funzionali elementi di arredo per dimore di ogni genere.
Magistralmente, e con la dovuta competenza, è lo studioso Antonio Picariello ad accompagnare per i sentieri del variegato “paese delle meraviglie” di Donatella…”Queste opere propongono l’Italia come dimora aperta all’arte del pianeta intero e permettono alla staticità del corpo terrestre di poter danzare e lievitare  nella forma aurea dei cromatismi ornamentali carichi di simbolismi della natura a modello comparativo con le architetture ornamentali delle nostre pietrificate cattedrali medievali. È la ricerca della  forma fortunata dell’istinto architettonico  che l’artista  trasforma in gioco visivo, capace di scatenare passione giocosa nello sguardo dei bambini e degli adulti attraverso un sotteso riporto codificato ad altre civiltà lontane nel cuore e nella topologia dalla canonica affezione occidentale. Forse poetica relativamente  etnica,  ma certamente molto più avanzate nel pensiero animista dell’imponente statuaria e imbalsamata vocazione espressiva dettata dalla civiltà industriale di questo galleggiante
Occidente. Il cuore meridionale dell’Italia si risveglia senza fatica divorando colori e simboli inconsci che quest’arte pre-freudiana e post-junghiana getta ai cuori di chi vuole ritornare nel gioco bello del guardare e del sentire il pianeta. Una grande sedia colorata dove poggiano i sorrisi delle maschere intrise di spiritualità feconda.”
Il pregio basilare della vulcanica campobassana è, comunque, una sana ironia! In lei non c’è alcuna pretesa didattica né l’intento di lanciare messaggi epocali socio-filosofico-culturali per i posteri. La sua Essenza è positiva, solare. Ama visceralmente la Natura ed il genere umano. Chi ha le capacità e la professionalità per farlo coglierà, decifrerà e diffonderà quel che i suoi manufatti comunicano. Lo spettatore dovrà solo ascoltare i racconti narrati dalle sculture di cartapesta, spogliandosi da ogni tipo di sovrastruttura e mettendo a nudo il proprio animo. Seguendo, quindi, l’invito dell’artista stessa nell’esplorazione di “mondi lontani miliardi di anni luce, per tuffarsi con un brivido nel non-conosciuto, arrivando fino in fondo e riemergendo dopo aver toccato le corde più oscure e insieme più luminose di un mondo che galleggia, acqueo e pericoloso, nel profondo dell’anima. Usando il proprio coraggio per arrivare proprio là dove si teme, per scoprire quanti innumerevoli ed insospettabili mondi albergano dentro le risonanze moltiplicantesi dell’anima, come grotte comunicanti in cui suoni ed echi sciolti nel colore si mescolano e si rincorrono.”
Ma al di la di tutto interverranno, entusiastici, tantissimi fanciulli….dai quattro agli ottant’anni!

Donatella di Lallo e la Castellana: come trasformare un "rudere" in dimora.


Donatella di Lallo e la Castellana
come trasformare un "rudere" in dimora.

di Paolo Giordano

Il Quotidiano del Molise
06 ottobre 2010
La Castellana è una delle contrade alla porte di Campobasso.
E’ di fatto associata a Polese, infatti  a quest’ultima si fa riferimento ai fini della residenza, ma si estende su un colle a sè stante. 
Prende il nome da un antica costruzione, che come un castello domina da una radura le vallate sottostanti. Il toponimo si riferisce alla proprietaria di questo edificio, il cui nucleo più antico è costituito da un “torrione” del 1700 a pianta rettangolare. L’insediamento iniziale è sicuramente precedente, poiché le denominazioni dell’hinterland campobassano risalgono al periodo che va dal XV al XVII secolo.
In considerazione delle potenzialità strategiche del sito non è da escludere che si trattasse di una rocca d’avvistamento o di un vero e proprio feudo.
Con il trascorrere degli anni, sia per l’intervento umano e sia per cause naturali, è completamente scomparsa ogni traccia del passato, ma la struttura è stata trasformata in un’elegante dimora munita di portale e corte.
Completamente immersa in una lussureggiante vegetazione è ulteriormente valorizzata dalla salubrità dell’aria. Per il piccolo maniero, a causa dei processi di urbanizzazione che sono alla base dell’abbandono degli insediamenti rurali, era incominciato un periodo di degrado accelerato da costanti atti vandalici.
Mescolando la cruda realtà al mondo delle favole vien facile sognare che, per uno strano gioco del Fato, alcuni luoghi permeati di vita propria obbligatoriamente incrocino la loro storia con quella di persone “sui generis”. E chi è maggiormente deputata ad essere protagonista di una fiaba se non un’artista?
"La Castellana" portale
Donatella di Lallo e “la Castellana” si incontrarono verso la metà degli anni ottanta e fu subito amore a prima vista!
L’attuale filosofia di vita vuole che si demolisca ogni vetusto manufatto, per realizzare dei nuovi impersonali fabbricati. Contro ogni logica corrente la di Lallo, con perseveranza e caparbietà, ha lavorato negli anni ad un lento e graduale recupero di quella che poi è diventata la sua abitazione. E non importa quanto tempo sia trascorso prima di renderla vivibile. Tanto ancora c’è da realizzare, ma il gusto, la cura del particolare, il rispetto per le architetture hanno riportato all’originaria bellezza l’antica casa in pietra. Ma se il fortilizio in miniatura è tornato a risplendere lo deve alla passione profusa ed al coinvolgimento emotivo che non sono assolutamente comprensibili per l’ “homo economicus”.
Come inizia ad accadere in più parti d’Italia, si dovrebbe incentivare il restauro del “vecchio”,  invece di rilasciare un’infinità di nuove concessioni, a seguito delle quali vengono fagocitati senza pietà numerosi spazi verdi.
In contrada Polese l’antica torre, ritenuta da alcuni una colombaia o addirittura un granaio, un tempo testimonianza di fatiscenza, oggi è la bandiera di una rinascita. Nei progetti dei proprietari è ardentemente vivo il desiderio di trasformala in una biblioteca, dove raccogliere le centinaia di volumi in loro possesso.
In tutta sincerità non si potrebbe immaginare altrove l’atelier di questa poliedrica creativa e non si può pensare ad una Castellana che non abbia le fattezze di Donatella.


La Castellana