"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA"
Il Quotidiano del Molise del 14 agosto 2016 |
di Vittoria Todisco
Noi venuti al mondo
negli anni ’40 per “fare il mare” andavamo in colonia.
colonie marine anni '40-'50 |
Adesso arrivano in
spiaggia ad orario comodo e non fanno a tempo a spogliarsi che hanno già fame.
Le mamme tirano fuori da enormi borse griffate spicchi di pizza che trasudano olio.
Loro, i ragazzini venuti al mondo dal 2000 in poi, le divorano senza staccare gli
occhi dal telefonino di ultima generazione che maneggiano con navigata abilità.
Il mare manco guardano di che colore è. L’altoparlante diffonde un suono di
percussione sempre uguale, un rumore interrotto e, se si è particolarmente
sensibili, si avverte un’accelerazione dei battiti cardiaci che nulla hanno in
comune con l’emozione che la musica dovrebbe procurare. Dove sono andate a
finire le canzoni dell’estate: “Una rotonda sul mare” e, se non proprio “A
Saint Tropez”, almeno “Vamos a la plaja”. Questi ragazzini che sfoggiano
capigliatura da mohicani sono la nostra discendenza, i nostri nipoti, i figli
dei nostri figli, ma tra noi e loro, c’è una distanza abissale che è inutile
cercare di impegnarsi a colmare.
Sono stati tanti i
figli nati nel primo dopoguerra che hanno fatto la colonia marina: il mare e il
sole erano l’antitesi alla tubercolosi molto presente in tutta Europa che
mieteva vittime soprattutto tra i bambini. Nate verso la fine dell’800 la loro
realizzazione venne affidata ai più insigni architetti dell’epoca; una risorsa
che si intensifica ancor più nel periodo fascista rendendole anche luogo di propaganda
e costruzione dell’uomo nuovo voluto dal regime: forte nel fisico un po’ meno
nell’intelletto. Nel dopoguerra caduto il fascismo si ritenne che le colonie
fossero ancor di più una buona iniziativa per sostenere le famiglie meno agiate
e offrire a bambini e ragazzi un periodo di 30 giorni l’anno di sole, mare ed attività
fisica e ludica. Dal 1948 al 1952 i figli del proletariato d’estate partivano per
la colonia. Chi scrive ha vissuto questa esperienza per ben tre stagioni: due volte
a Termoli, la terza sobbarcandosi un interminabile viaggio in treno, a Senigallia,
nelle Marche.
Per noi bambini il
viaggio in treno rappresentava una novità, un’avventura che iniziava già prima
della partenza. Ci radunavano tutti alla Gil. Le nostre mamme ci salutavano
lasciandoci in lacrime e digiuni agli addetti alla struttura. Interminabile, ci
pareva il viaggio in treno e, quando dai finestrini si cominciava a scorgere il
mare l’emozione era tantissima. Le onde bianche e spumose che si frangevano
sulla riva venivano chiamate cavalloni ed entravano in un gergo nuovo anche la
nostra fantasia galoppava immaginando di poter vivere avventure temerarie e
sconosciute nelle quali il vento, il sole e il mare fossero le uniche forze
della natura a farci compagnia.
A Termoli eravamo ospitati nella scuola elementare.
Le aule erano state trasformate in dormitori, ci avevano consegnato un
pagliaccetto a quadretti bianchi e rosa, maglietta bianca e cappellino, scarpe
con la suola di corda.
Ciascuna squadra
aveva la sua vigilatrice: giovani insegnanti o aspiranti tali spesso costrette
a far le veci della mamma. Ricordo ancora la direttrice del primo anno, 1949.
Certo non ricordo quasi nulla del suo aspetto, del resto era quella una figura
distante da noi bambini. Ricordo che pativamo la fame, il cibo era scarso e
l’obbligo ad irrobustire i nostri gracilissimi fisici era affidato al sole e al
mare. Perché questa direttrice mi è rimasta nella memoria? Perché ci obbligava
recitare ogni giorno estenuanti orazioni. Una mattina ci svegliarono che non
era ancora sorto il sole.
Non capivamo cose
stesse accadendo e dopo averci fatte vestire alla svelta ci condussero in
stazione dove poco dopo giunse il treno bianco per Lourdes che si fermò sul binario
mentre noi in fila cantavamo Evviva
Maria.
L’ultimo giorno di
colonia la direttrice volle salutarci, ci radunano nel corridoio del primo
piano dell’edificio e la conclusione del suo lungo discorso per noi in-comprensibile
penetrò bene nella mia mente giacché rivelò l’indole e l’aspirazione di questa
donna alla quale erano state affidate centinaia di creature: addio bambine sono sicura che non ci vedremo
più ma certamente ci incontreremo in Paradiso.
L’anno successivo mi
consideravo una veterana e facevo forza su me stessa per non farmi prendere
trop-po dalla nostalgia che soprattutto di sera, come succede anche ai naviganti:
intenerisce il core. Eravamo
intruppate come piccole soldatesse e andando e tornando dal mare sotto il sole cocente
doveva- mo cantare per attestare vitalità e buon umore.
Son marinaio marinar
della marina tengo le chiavi dell’oro dell’argento son marinaio di questo basti-
mento finché l’Italia più libera sarà. In spiaggia ci radunavano tutte sotto
una copertura di cannucce e si giocava alle cinque pietre, un gioco di destrezza
ed abilità nel muover le mani e far saltare cinque pietre. Il vitto, rispetto
all’anno precedente, era migliorato. Ma una volta nell’edificio ci sentivamo in carcere
mentre dal- l’esterno ci giungevano le voci dell’estate termolese alla
quale eravamo estranee, neanche spettatrici giacché i vetri delle finestre
erano schermati con una odiosissima carta
azzurrina. Un’ala dell’edificio affacciava su un cinema all’aperto e alla sera
con le finestre del bagno aperte ci si addormentava con la voce di Amedeo
Nazzari o quella vellutata di Tina Lattanzi, doppiatrice di Greta Garbo e di
molte altre attrici straniere, ed era un po’ come ave- re accanto la mamma e il
papà.
Pierluigi Giorgio e la madre |
Quell’anno la
direttrice era bella, attenta e severa, a detta delle vigilatrici. Aveva con se
il figlioletto, un bambino biondo e vivace che le vigilatrici faceva a gara a
spupazzarsi. Noi sentivamo un po’ di invidia per quel piccolino che aveva la
fortuna di stare con la sua mamma. Guardavamo quei riccioletti biondi da cherubino,
la rotondità delle guance paffute e ci cat-turava la sua risata argentina piena
di una gioia che nasceva da un gioco appe-na concluso o che stava per iniziare.
Noi tutte, eravamo
coscienziose della necessità di quel soggiorno estivo che però rappresentava un
doloroso strappo con la nostra casa e le
piccole quotidiane abitudini ma avvertivamo la responsabilità di un sacrificio
che avrebbe dovuto giovarci e facevamo nostro l’obbligo di comportarci da donnine
consce che altrettanta nostalgia veniva sofferta dal- le nostre famiglie.
Pierluigi Giorgio |
In colonia non
ricordo di aver allacciato amicizie tra le mie coetanee, a parte quelle che già
conoscevo.
Stranamente però, l’unico al quale sono ancora oggi legata da
affetto, amicizia e rispetto è proprio quel bambino biondo verso il quale ho
per la prima volta provato un sentimento odioso qual è l’invidia. Egli risponde
al nome di Pierluigi Giorgio.
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