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martedì 16 agosto 2016

"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA" di Vittoria Todisco. Ricordi ancora vivi e scatti inediti di un giovanissimo Pierluigi Giorgio


"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA"

Il Quotidiano del Molise
del 14 agosto 2016
di Vittoria Todisco

Noi venuti al mondo negli anni ’40 per “fare il mare” andavamo in colonia.
colonie marine anni '40-'50
Adesso arrivano in spiaggia ad orario comodo e non fanno a tempo a spogliarsi che hanno già fame. Le mamme tirano fuori da enormi borse griffate spicchi di pizza che trasudano olio. Loro, i ragazzini venuti al mondo dal 2000 in poi, le divorano senza staccare gli occhi dal telefonino di ultima generazione che maneggiano con navigata abilità. Il mare manco guardano di che colore è. L’altoparlante diffonde un suono di percussione sempre uguale, un rumore interrotto e, se si è particolarmente sensibili, si avverte un’accelerazione dei battiti cardiaci che nulla hanno in comune con l’emozione che la musica dovrebbe procurare. Dove sono andate a finire le canzoni dell’estate: “Una rotonda sul mare” e, se non proprio “A Saint Tropez”, almeno “Vamos a la plaja”. Questi ragazzini che sfoggiano capigliatura da mohicani sono la nostra discendenza, i nostri nipoti, i figli dei nostri figli, ma tra noi e loro, c’è una distanza abissale che è inutile cercare di impegnarsi a colmare.
Sono stati tanti i figli nati nel primo dopoguerra che hanno fatto la colonia marina: il mare e il sole erano l’antitesi alla tubercolosi molto presente in tutta Europa che mieteva vittime soprattutto tra i bambini. Nate verso la fine dell’800 la loro realizzazione venne affidata ai più insigni architetti dell’epoca; una risorsa che si intensifica ancor più nel periodo fascista rendendole anche luogo di propaganda e costruzione dell’uomo nuovo voluto dal regime: forte nel fisico un po’ meno nell’intelletto. Nel dopoguerra caduto il fascismo si ritenne che le colonie fossero ancor di più una buona iniziativa per sostenere le famiglie meno agiate e offrire a bambini e ragazzi un periodo di 30 giorni l’anno di sole, mare ed attività fisica e ludica. Dal 1948 al 1952 i figli del proletariato d’estate partivano per la colonia. Chi scrive ha vissuto questa esperienza per ben tre stagioni: due volte a Termoli, la terza sobbarcandosi un interminabile viaggio in treno, a Senigallia, nelle Marche.


Per noi bambini il viaggio in treno rappresentava una novità, un’avventura che iniziava già prima della partenza. Ci radunavano tutti alla Gil. Le nostre mamme ci salutavano lasciandoci in lacrime e digiuni agli addetti alla struttura. Interminabile, ci pareva il viaggio in treno e, quando dai finestrini si cominciava a scorgere il mare l’emozione era tantissima. Le onde bianche e spumose che si frangevano sulla riva venivano chiamate cavalloni ed entravano in un gergo nuovo anche la nostra fantasia galoppava immaginando di poter vivere avventure temerarie e sconosciute nelle quali il vento, il sole e il mare fossero le uniche forze della natura a farci compagnia. 
A Termoli eravamo ospitati nella scuola elementare. Le aule erano state trasformate in dormitori, ci avevano consegnato un pagliaccetto a quadretti bianchi e rosa, maglietta bianca e cappellino, scarpe con la suola di corda.
Ciascuna squadra aveva la sua vigilatrice: giovani insegnanti o aspiranti tali spesso costrette a far le veci della mamma. Ricordo ancora la direttrice del primo anno, 1949. Certo non ricordo quasi nulla del suo aspetto, del resto era quella una figura distante da noi bambini. Ricordo che pativamo la fame, il cibo era scarso e l’obbligo ad irrobustire i nostri gracilissimi fisici era affidato al sole e al mare. Perché questa direttrice mi è rimasta nella memoria? Perché ci obbligava recitare ogni giorno estenuanti orazioni. Una mattina ci svegliarono che non era ancora sorto il sole.
Non capivamo cose stesse accadendo e dopo averci fatte vestire alla svelta ci condussero in stazione dove poco dopo giunse il treno bianco per Lourdes che si fermò sul binario mentre noi in fila cantavamo Evviva Maria.
L’ultimo giorno di colonia la direttrice volle salutarci, ci radunano nel corridoio del primo piano dell’edificio e la conclusione del suo lungo discorso per noi in-comprensibile penetrò bene nella mia mente giacché rivelò l’indole e l’aspirazione di questa donna alla quale erano state affidate centinaia di creature: addio bambine sono sicura che non ci vedremo più ma certamente ci incontreremo in Paradiso.
L’anno successivo mi consideravo una veterana e facevo forza su me stessa per non farmi prendere trop-po dalla nostalgia che soprattutto di sera, come succede anche ai naviganti: intenerisce il core. Eravamo intruppate come piccole soldatesse e andando e tornando dal mare sotto il sole cocente doveva- mo cantare per attestare vitalità e buon umore.
Son marinaio marinar della marina tengo le chiavi dell’oro dell’argento son marinaio di questo basti- mento finché l’Italia più libera sarà. In spiaggia ci radunavano tutte sotto una copertura di cannucce e si giocava alle cinque pietre, un gioco di destrezza ed abilità nel muover le mani e far saltare cinque pietre. Il vitto, rispetto all’anno precedente, era migliorato. Ma una volta nell’edificio ci sentivamo in  carcere  mentre dal- l’esterno ci giungevano le voci dell’estate termolese alla quale eravamo estranee, neanche spettatrici giacché i vetri delle finestre erano  schermati con una odiosissima carta azzurrina. Un’ala dell’edificio affacciava su un cinema all’aperto e alla sera con le finestre del bagno aperte ci si addormentava con la voce di Amedeo Nazzari o quella vellutata di Tina Lattanzi, doppiatrice di Greta Garbo e di molte altre attrici straniere, ed era un po’ come ave- re accanto la mamma e il papà.
Pierluigi Giorgio e la madre
Quell’anno la direttrice era bella, attenta e severa, a detta delle vigilatrici. Aveva con se il figlioletto, un bambino biondo e vivace che le vigilatrici faceva a gara a spupazzarsi. Noi sentivamo un po’ di invidia per quel piccolino che aveva la fortuna di stare con la sua mamma. Guardavamo quei riccioletti biondi da cherubino, la rotondità delle guance paffute e ci cat-turava la sua risata argentina piena di una gioia che nasceva da un gioco appe-na concluso o che stava per iniziare.
Noi tutte, eravamo coscienziose della necessità di quel soggiorno estivo che però rappresentava un doloroso  strappo con la nostra casa e le piccole quotidiane abitudini ma avvertivamo la responsabilità di un sacrificio che avrebbe dovuto giovarci e facevamo nostro l’obbligo di comportarci da donnine consce che altrettanta nostalgia veniva sofferta dal- le nostre famiglie.
Pierluigi Giorgio
In colonia non ricordo di aver allacciato amicizie tra le mie coetanee, a parte quelle che già conoscevo. 

Stranamente però, l’unico al quale sono ancora oggi legata da affetto, amicizia e rispetto è proprio quel bambino biondo verso il quale ho per la prima volta provato un sentimento odioso qual è l’invidia. Egli risponde al nome di Pierluigi Giorgio.


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