Pensieri



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sabato 6 novembre 2021

14-18 LA GUERRA A COLORI (parte seconda). A Campobasso, dal 10 novembre 2018 al 13 gennaio 2019, si è svolta nei locali della Galleria Spazio Immagine la mostra fotografica "14-18 LA GUERRA A COLORI".







IL BENE COMUNE

ANNO XIX - n° 4 - aprile 2019

14-18 LA GUERRA A COLORI


"Il documento fotografico arricchito del colore avvicina -coinvolgendo i sensi e le emozioni- ai volti, ai luoghi, alla distruzione ed alla cruda sofferenza" (dal catalogo della Mostra).


Parte seconda


Paolo Giordano 
 
Fermo restando quanto premesso, ma nella piena consapevolezza che la tragicità della guerra si potesse avvertire anche mediante il colore, durante il primo conflitto mondiale furono commissionate numerose fotografie policrome, destinate sia agli archivi che alla propaganda.
L'intento era forse quello di far percepire le vicende belliche come qualcosa di tragicamente attuale, nonché vicino, e non come la narrazione di un evento che si sta svolgendo altrove. 

"14-18" la Guerra a Colori 
Le immagini esposte nella Mostra campobassana, rese ancor più suggestive dalla retroilluminazione, sono da ritenersi autentiche opere d'arte. Tutte, indistintamente, hanno ispirato variegate emozioni e sensazioni in quanti le hanno ammirate, rendendo quasi impossibile scriverne in maniera esaustiva. L'esperienza dai più condivisa è sicuramente quella di aver viaggiato in uno spazio senza tempo, reso ancor più irreale proprio dal vedere a colori un'epoca, non solo lontana ma che, essendo in stato di guerra doveva essere obbligatoriamente in bianco e nero. La sovversione, quasi rivoluzionaria, di quanto sancito dalle regole della fotografia proietta il visitatore in una dimensione onirica, seducente e affascinante, attraverso cui entrare nella Storia. Ci si ritrova quasi in un'esperienza medianica di transfert, in una condizione empatica con i personaggi ritratti, a loro volta fluttuanti in una condizione di atemporalità. I volti fotografati sembrano a noi contemporanei! I giovani senegalesi delle truppe coloniali francesi, oltre a far trapelare una simpatica vitalità (è ironico quel pettine infilato tra i capelli?) sono resi ancor più attuali dalle tristi vicende dei tanti che, partendo anche da terre che hanno conosciuto il giogo europeo, intraprendono viaggi della speranza alla ricerca di una vita migliore.
Le espressioni tese, gli occhi impauriti, i pigli fieri e dignitosi, gli sguardi sgomenti o sorpresi dei giovani prigionieri (di entrambi gli schieramenti) fanno dimenticare la loro appartenenza nell'apparire tra loro fratelli, figli di uno stesso dio minore. Ibernati nella loro giovane età, ispirano un sentimento di tenerezza che induce a dimenticare come tra essi potrebbe celarsi addirittura qualche avo dei visitatori.


Dormi sepolto in un campo di grano…
Come l'Alighieri nell'Inferno della sua Commedia, definita Divina, fu guidato dallo spettro di Virgilio, così il pubblico della Mostra sembrerebbe venir condotto negli inferi della Grande Guerra dal suono delle canzoni di Fabrizio de Andrè.
immagine dal catagolo Mostra
Non si hanno prove che il cantautore genovese abbia avuto modo di ammirare queste autocromie, eppure in "Trincea francese" (1916) sono proprio dei papaveri rossi "a far veglia dall'ombra dei fossi" (La Guerra di Piero, 1964). Chi sa quanti Pierre erano presenti tra soldati che, incuriositi ("fintamente" se si considerano i tempi necessari ad uno scatto) osservano l'obiettivo, facendo capolino dai loro rifugi scavati in trincea.
In una delle sale della Galleria è stata allestita, dal Centro per la Fotografia Vivan Maier, un'area in cui poter affiggere liberamente, in un'ottica di sinergica condivisione e di fattiva interazione, ogni tipo di testimonianza (lettere, cartoline e documenti) sul periodo del conflitto. 
L'obiettivo, pienamente raggiunto, senza alcun condizionamento interpretativo ma solo con prove documentali, ha permesso un'ampia riflessione sui fatti e su coloro che ne furono protagonisti, sia immolandosi quale carne da cannone, sia mandando al macello migliaia di vittime, il cui sangue dissetò le aride zone di guerra.
Guardando i fotodipinti di uomini, donne, bambini, fantaccini, ufficiali, soldati impegnati nelle più svariate attività, prigionieri, conquistatori, corteggiatori, medici, moribondi e morti… il Virgilio si domanda "dove sono i generali, che si fregiarono nelle battaglie, con cimiteri di croci sul petto?" (La Collina, 1971). Sembrerebbe, però, che i graduati siano stati deliberatamente omessi… vi è solo un romantico capitano francese, in una tenuta tutt'altro che da battaglia, che posa per gli intervenuti in rappresentanza di tutta la categoria.


GiuseppeSerpone, soldato 212 Fanteria 1° reparto Zappatori zona di guerra
In questa stanza delle memoria si racconta, attraverso il rapporto epistolare con la consorte M. Antonia
G. Serpone (fonte Internet)
Cofelice, la vicenda del giovane Giuseppe Serpone da Toro, strappato ai suoi affetti, trascinato lontano dalla sua terra, per combattere una guerra di cui ben poco comprendeva. Rende ancora più tragica la sua storia, il parallelismo con le lettere che il Generale Luigi Cadorna, Capo di Staro Maggiore dell'esercito italiano, scambiò con la propria moglie. Alle semplici ma concrete riflessioni del soldato Giuseppe, fanno da controcanto, quale rovescio della stessa medaglia, le parole della più alta carica militare di quel momento storico.
Da un lato la non consapevolezza di cosa riservasse il futuro, la meraviglia dinanzi alla scoperta del mondo, "montagne così alte non ho visto mai", la fame, la fatica, il desiderio di tornare a casa, lo sgomento per la diserzione di un compaesano, il dolore per aver appreso della morte del cognato, l'attesa di una licenza, il bisogno di denaro per i francobolli e per il pane "… di più voi mi dite come me la passo in questa parte? Io vi dico che me la passo come Iddio vuole, che se io vi mande a dire qualche cose voi non lo credete e per questo e meglio che non vi mando a dire niente, che se il buon Iddio me la franco la pelle quando ritorno allora vi acconterò tutte le passione, ma non tutte però se no ve ne andate col cervello".
La furia della battaglia e la convivenza quotidiana con la morte diventano delle costanti nei pensieri di Giuseppe "07/09/1916… la giornata della assunta io mi trovavo in prima linea, e il giorno seguente fui anche ferito con una pallottola nella testa… ma fortuna che ciaveva il cappello di ferro e la pallottola andò strisciando e mi ferì dentro il collo e debbo ringraziare ad Iddio, e alla vergine dell'Assunta che forse ella non volle, a pure mio destino non è fatto per moriri in guerra".
Purtroppo, invece, il ventunenne Serpone morì il sette luglio 1917 a Plezzo, sul Carso, per le ferite riportate in combattimento colpito da una pallottola esplosiva. Riposa nel Sacrario Militare Italiano di Caporetto.
Il cognato Mercurio Cofelice (14/02/1889-27/06/1916), soldato del 4° Reggimento Bersaglieri, era in precedenza deceduto pugnando sul Monte Mrzli.
Dall'altro la visione "eroica" di un militare di professione che, pur rammaricandosi paternalisticamente per le giovani vite spezzate, lascia trasparire tutta l'enfasi di chi è fermamente convito che il suo dovere consista principalmente nell'offrire, con gesto incondizionato, la propria esistenza alla patria ed al re. Egli si compiace delle magnifiche truppe, piene di entusiasmi e di eroico slancio. Per il generale la morte in battaglia è gloriosa e quale miglior sepoltura potrebbe esservi, qualora effettuata in fosse comuni, se non tra le ossa dei compagni d'arme eroicamente caduti?
Entusiasta dei guerrieri pronti al sacrificio e desiderosi di abbandonare i letti d'ospedale per riprender le armi; sprezzante con i codardi, pronto a stupirsi come un bimbo per i tributi di affetto del popolo, affascinato dalla maestosità della natura "ieri mattina bellissima escursione sulle alture conquistate sulla destra dell'Isonzo. Si sentiva tuonare, in lontananza. Il cannone di una batteria austriaca". Rigoroso nel rifiutare licenze e favoritismi "al figlio del custode", raccomandatogli ripetutamente dalla moglie a cui non disdegna, però, di raccontare note di costume "pranzammo dal re nella sua molto modesta villa. Si direbbe che Sua Maestà simuli la semplicità".
Almeno dagli scritti si direbbe uomo saggio e riflessivo "Stamane andai sull'altipiano di Asiago al monte Lemerle, ultimo punto che fu furiosamente attaccato dal 15 al 18 agosto, Che spettacoli orrendi! C'erano molti cadaveri ancora da seppellire. Oh la guerra! E pensare che si potrebbe rimaner tutti tranquilli in pace se gli uomini non fossero sempre invasi dal prurito di prendersi la roba degli altri!".
Comunque sia il maresciallo d'Italia Luigi Cadorna, sul quale ognuno trarrà le personali valutazioni, morì a 78 anni a Bordighera, nella "Pensione Jolie", poi divenuta "Hotel Britannique", il 21/12/1928 per cause naturali.
 
Lo stesso identico umore... ma la divisa di un altro colore
Le immagini in mostra nascono con scopi propagandistici e di cronaca, pur se tutte ugualmente sono da ritenersi autentiche produzioni artistiche anche grazie al colore che indiscutibilmente dona loro un valore aggiunto.
Le ambientazioni e gli abbigliamenti trasmettono una sensazione di quasi normalità. Necessita la giusta attenzione per identificare le nazionalità, distinguendo i buoni dai cattivi. Ci si trova spesso semplicemente al cospetto di uomini accomunati da molteplici occupazioni tutt'altro che di natura bellica. Sembra che la guerra assuma una dimensione umana, a tratti cavalleresca, in cui il nemico si sente investito del dovere di curare e assistere lo sconfitto, una volta che questi è divenuto un inerme prigioniero… e lo Spirito Guida torna a cantare "La Guerra di Piero" dove solo la divisa fa la fondamentale, ed irreversibile, differenza. Il nemico uccide per paura non per odio: "Quello si volta, ti vede e ha paura/ Ed imbracciata l'artiglieria/ Non ti ricambia la cortesia".
Nel percorso espositivo non si trasmette, quindi, alcun messaggio precostituito, né, come per la Sala della memoria, si vuole influenzare l'osservatore. Egli deve solo ascoltare ciò che le immagini gli suscitavano nel più profondo dell'animo.

Le Caporal Langelé
Nella disposizione delle foto, tra operazioni tecnico-belliche, scene di quotidianità, distruzione e ricostruzione, partenze e ritorni, bambini che giocano alla guerra, guerrieri stupiti come bimbi, amore,
immagine dal catagolo Mostra
odio e morte, potrebbe ravvisarsi un itinerario ascetico, che rimanda al progetto divino della redenzione. La prima foto in assoluto raffigura delle donne, operaie in una fabbrica francese di aerei, tra loro se ne distingue una con un fazzoletto dal mistico colore azzurro sul capo. Partendo da questa novella Maria/Eva il susseguirsi dei lightbox conduce, attraverso un irrefrenabile crescendo, fino all'ultima foto, posta fisicamente in alto, alla fine di una scalinata, adagiata su delle lastre in pietra simboleggianti un sepolcro. Essa consegna ai posteri le spoglie martoriate del caporale Langelé, il corpo esanime, completamente nudo, adagiato nella sua miseria umana su un lenzuolo e sorretto da un occasionale catafalco. Un povero cristo sulle cui mani sembra quasi di vedere i fori dei chiodi... un Cristo, simbolo del genere umano immolato in quell'inutile strage,
per il quale, però, non è prevista alcuna resurrezione: "Dove i figli della guerra/ partiti per un ideale/ per una truffa, per un amore finito male/ hanno rimandato a casa/ le loro spoglie nelle barriere/ legate strette perché sembrassero intere." (La Collina, 1971).

Vestitini rossi... i bimbi e la Guerra!
Nel film "Schindler's List" di Steven Spielberg è contenuta una celebre scena che lascia indelebile memoria di sé nell'animo dello spettatore. Essa può essere annoverata tra i più noti ed affascinati esempi dell'uso in contemporanea del bianco e nero e del colore. Una bimba con un cappotto rosso cammina, come presenza atemporale, tra deportati e aguzzini rigorosamente in bianco e nero. Il suo cappottino si rivedrà, spegnendo ogni speranza del pubblico in sala, in un cumulo di cadaveri!
In "14-18 La Guerra a Colori" è individuabile una sezione a parte riguardante proprio i bambini. In realtà si tratta di poche, ma significative foto, il cui forte effetto propagandistico sfugge di primo acchito in virtù del candore dei soggetti ritratti. Ne è protagonista un bambino che indossa, imprevedibile coincidenza, un vestitino rosso!
immagine dal catagolo Mostra
Il soldatino, perfetto ed agguerrito milite francese, è ora guardia d'onore alla consegna di onorificenze ai suoi piccoli commilitoni, ora cattura, ardito guerriero, un perfido nemico, infine asso dell'aviazione abbatte, dopo un impegnativo duello aereo, un monoplano con le insegne germaniche. 
     
Il combattimento aeronautico, oltremodo suggestivo tanto da essere divenuto una delle immagini simbolo della Mostra, è ovviamente da ritenersi tutt'altro che spontaneo. Dalla cura dei particolari trapelano studio preliminare ed artificio scenico, prevalentemente in considerazione delle difficoltà tecniche che s'incontravano nel produrre uno scatto a colori. E' da ritenersi innegabile che, nella sua apparente innocenza, tale composizione sia risultata maggiormente incisiva nel rendere "giusta" quella guerra, molto più di quanto vi saranno riuscite le tante scene di devastazione, dolore e pianto tramandate ai posteri.

 
 
 
La ragazza di Reims
Ben diverse e meno ciniche le suggestioni ispirate dalla fotografia dal laconico titolo "Ragazza" – Reims, Francia 1917, opera di Fernand Cuville.
E' il ritratto, in una giornata assolata, di una bambina, seduta su uno zaino militare, con in braccio una bambola. Accanto a lei un altro zaino e tre fucili. Alle sue spalle negozi di generi alimentari, si distinguono cacciagione ed ortofrutta. Assale il sospetto che i proprietari di quel materiale di morte siano in luoghi di piacere fuori dalla scena. La piccola, dall'aspetto serafico e dallo sguardo malinconico, abbraccia con dolcezza la sua bambola, accudendola amorevolmente e sognando quella serenità che le hanno brutalmente strappato. Intorno lutti, desolazione, odio, sangue, ma soprattutto la brama di appagare i propri bisogni carnali, fame o sesso che siano.
Oltre all'analisi visiva, viene da chiedersi cosa realmente intendesse comunicare l'autore che, come ampiamente ribadito, non poté certo procedere ad un rapido scatto, dovendo preparare accuratamente la scena, che, al pari di un dipinto, risulta comunque un'opera d'arte.
Lo scopo principale era di rispondere ad un'esigenza di cronaca, ma perché escludere che Cuville intendesse parlare anche di amore? Un sentimento puro ed avvolgente di cui la Ragazza, ancor bambina, aveva fortemente bisogno, nonché una pulsione più viscerale… l'illusione dei soldati di sfuggire alle atrocità della Guerra ed alla Morte rifugiandosi nel calore umano: ...cosa vai cercando in quel portone/ forse quella che sola ti può dare una lezione... Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte... diecimila lire per sentirti dire "micio bello e bamboccione" (F. De André - La Città Vecchia, 1965).Per la fotografia di Cuville, come per tutte le immagini esposte, si rinnova quindi il dialogo tra il fotografo, intenzionato a trasmettere un proprio messaggio, e gli spettatori alla continua scoperta di ispirazioni ed interpretazioni intime e personali. La stessa didascalia, "Ragazza", potrebbe essere sostituita con una varietà di titoli suggestivi tra cui "L'infanzia negata", "La fanciullezza non vissuta" o, semplicemente, "La Ragazza di Reims".
foto Marisa Pia Boscia
Di rado, come invece accade per questo evento, si riesce a mantenere sempre vivo il dialogo tra le opere in mostra ed i visitatori che osservano, commentano, riflettono o fotografano. Tanto ciò è vero che, in una fotografia scattata al vernissage, s'intravede una mano, forse quella di una madre che indica ai figli la tenera bimba di Reims. Quel dito rimanda, in un virtuoso processo di associazioni, alla Creazione michelangiolesca della Cappella Sistina. Tra le tante atrocità della Guerra, qui testimoniate, sembra che una mano divina punti l'indice verso quella sua indifesa creatura sofferente… saprà Essa accarezzare quel cuore spezzato, restituendo pace al Mondo devastato, oppure resterà nell'oscura indifferenza, giudicando severamente (e condannando) la miseria umana che ha provocato anche il dolore dell'innocente?



Fonti bibliografiche e fotografiche


Massimo Vitale
. Con l'animo che vince ogni battaglia - I molisani nella grande Guerra (1917-1918). Enzo Nocera Editor. Campobasso, 2007.

Centro per la fotografia Vivan Maier. 14-15 La Guerra a Colori. Catalogo della Mostra a cura di Federico Mininni. CM Stampa. Campobasso, 2018. 
Paolo Giordano. La Grande Guerra rivista coi colori della storia.
Il Quotidiano del Molise, 6 gennaio 2019 
Paolo Giordano. La Ragazza di Reims fascino e suggestione de La Guerra a Colori.
Il Quotidiano del Molise, 14 gennaio 2019. 
FOTOCRAZIA, Evoluzione e rivoluzione nel futuro, nel presente e nel passato del fotografico. http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ 
Albo dei Caduti della Grande Guerra. http://www.cadutigrandeguerra.it/Default.aspx


lunedì 8 luglio 2019

14-18 LA GUERRA A COLORI (parte prima). A Campobasso, dal 10 novembre 2018 al 13 gennaio 2019, si è svolta nei locali della Galleria Spazio Immagine la mostra fotografica "14-18 LA GUERRA A COLORI".




ANNO XIX - n° 3 - marzo 2019

14-18 LA GUERRA A COLORI

"Il documento fotografico arricchito del colore avvicina -coinvolgendo i sensi e le emozioni- ai volti, ai luoghi, alla distruzione ed alla cruda sofferenza" (dal catalogo della Mostra).
Parte prima

Paolo Giordano

Si è svolta a Campobasso, dal 10 novembre 2018 (centenario dell'armistizio di Compiègne sottoscritto l'11/11/1918) al 13 gennaio 2019, la mostra fotografica "14-18 La Guerra a Colori". Ospitata nei locali della Galleria Spazio Immagine, curata da Reinhard Schulz ed allestita da Massimo Di Nonno, è stata presentata dal Centro per la Fotografia Vivan Maier. Resa possibile anche grazie alla collaborazione di Europe Direct Molise, con il cofinanziamento dell'Unione Europea, ha ricevuto i contributi di Colavita (industria olearia) e di Laser Milano. L'evento si è inserito tra le iniziative d'interesse storico-culturale patrocinate dalla "Commissione dell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale 2018", ed è stato affiancato da un'analoga iniziativa promossa dal MiBAC, Polo Museale del Molise.
Più di cinquanta immagini uniche hanno raccontato la prima Guerra Mondiale, così come non la si era mai vista o immaginata. Come evidenziato dal curatore Reinhard Schultz "Il sangue versato sui vari fronti era rosso, ma le immagini tramandate nella memoria delle generazioni successive sono in bianco e nero". Nell'immaginario collettivo, infatti, sono appunto questi ultimi due i colori della guerra e solo la pittura prima, ed il cinema poi, hanno interpretato i combattimenti in policromia, facendoli percepire, però, come delle messe in scena. Al pari di un dogma, pertanto, sembrerebbe che le battaglie, la distruzione, la morte, per non perdere la loro carica drammatica, non possano che essere monocromatiche. Eppure, sin dal 7 gennaio 1839, quando François Jean Dominique Arago annunciò all'Académie des Sciences di Parigi l'innovativa invenzione di Louis Jacques Mandé Daguerre, fu assunto il solenne impegno di poter al più presto fotografare i colori.

Il nastrino di tartan scozzese di Maxwell
Il Nastrino di Tartan Scozzese
James Clerk Maxwell, fisico e matematico, nel maggio del 1871, durante una lezione alla Royal Institution of Great Britain, mostrò la prima fotografia a colori che si conosca: un fiocco colorato con decorazione tartan.
In realtà ne presentò una "dimostrazione", facendo coincidere quella foto con la prima delle immagini virtuali. Lo scatto, che riproduceva il nastrino di tartan, non è mai materialmente esistito. Non si poteva toccare, fluttuava sullo schermo, prodotto impalpabile dell'incrocio dei fasci luminosi di tre lanterne magiche, ciascuna delle quali proiettava una diapositiva monocroma: una verde, una azzurra, una rossa.
Prima di Maxwell, un pastore battista di Westkill, Levi Hill, aveva sostenuto di essere riuscito a catturare i colori sin dal 1851, ma costui morì in odore di ciarlataneria a causa della mancanza di prove concrete a sostegno di quel che affermava. Ricevette giustizia postuma nel 1933, grazie al ritrovamento di materiale che dimostrò la veridicità di quanto da lui asserito.
foto Marisa Pia Boscia
Fu Gabriel Lippman il primo a fotografare realmente i colori (ricevendo anche il Nobel), immortalando nel 1892 un pappagallino nello splendore del suo piumaggio. Però il metodo (interferenziale) utilizzato dal fisico franco-lussemburghese era, di fatto, impraticabile. La strada giusta restava quella intuita da Maxwell, secondo cui non si potevano strappare alla natura le infinite sfumature, ma solo simularle artificialmente, partendo dalle tre tinte base. Bisognava "mettere in mano al sole una tavolozza con tre colori già pronti, e chiedergli di usare solo quelli", scrisse Ducos du Hauron, poliedrico inventore francese a cui capitò di brevettare il suo metodo a tre negativi separati lo stesso giorno del 1869 in cui un altro bello spirito, Charles Cros, faceva la stessa cosa col suo, del tutto identico. Quando si dice che un'invenzione è matura (Michele Smargiassi).
Agli albori del nuovo secolo, furono i fratelli Lumière, padri del Cinematografo, a dar seguito a quanto a suo tempo promesso all'Académie des Sciences di Parigi: fotografare i colori!

L'avvento dell'Autochrome
foto Massimo di Nonno
L'autocromia, brevettata nel 1903 dai Lumière, fu quindi la risposta alla necessità dei fotografi di ottenere riproduzioni a colori di una realtà fino allora immortalata sempre e solo in bianco e nero. Si trattava di un procedimento sicuramente affascinante: su una lastra di vetro si stendevano piccolissimi granelli di fecola di patate, in precedenza colorati di giallo, di blu e di rosso. Su questo strato di "pixel" naturali veniva disposta un'emulsione sensibile, in bianco e nero. La luce delle scene, attraversata la fecola, ne trasferiva il colore giusto sull'emulsione, generando immagini a metà tra la fedele riproduzione fotografica e l'emozionante colorazione pittorica.
L'epocale traguardo raggiunto fu, però, accompagnato da una serie di oggettive controindicazioni. Per raggiungere il loro scopo, infatti, i fotografi dovevano affrontare, oltre a costi alquanto elevati, non poche peripezie, utilizzando enormi macchine fotografiche e "trascinandosi dietro" le ingombranti scatole di legno contenenti le necessarie lastre di vetro. Era, inoltre, impossibile realizzare istantanee per via della bassa sensibilità; la granulosità del reticolo formato dai granelli di fecola era visibile ed influiva negativamente sulla nitidezza dell'immagine; la lastra sviluppata poteva solo essere osservata in trasparenza o proiettata, ma non stampata con metodi fotografici per cui ogni immagine era unica e non duplicabile.
Tra la Kodak (statunitense) e l'Agfa (tedesca) si consumò una sfida, dal gusto quasi politico, su chi fosse riuscito per primo ad eseguire una stampa a colori. Vinsero apparentemente gli americani che nel 1935 lanciarono sul mercato la Kodachrome, pellicola a colori destinata a regnare per oltre settant'anni. Essa, però, benché riproducibile, restava pur sempre una diapositiva. Nel 1936 i tedeschi ottennero la loro rivincita commercializzando l'Agfacolor: il primo autentico negativo fotografico a colori.
Ciononostante, con buona pace di François Jean Dominique Arago, malgrado i successi ottenuti, si continuarono a prediligere il bianco e nero quali colori della realtà.

Il colore tende a corrompere la fotografia
La fotografia di reportage rimase monocromatica e, paradossalmente, tale restò la tonalità del reale. Il colore fu usato per le copertine dei rotocalchi o per le pubblicità, divenendo la tinta del sogno. Più la cronaca era seria, meno opportuno appariva l'uso dei colori, percepiti come un artificio retorico che offriva una visione poco verosimile della realtà.
Non tanto la prima, quanto la seconda Guerra Mondiale poteva essere raccontata a colori, ma si sarebbe rischiato di perdere la necessaria sensazione di evento fosco, sporco, catramoso che solo il bianco e nero riusciva appieno a trasmettere. Le policromie potevano risultare troppo rassicuranti, al pari di una terapia ansiolitica.
Prova ne sono le rarissime foto a colori degli accampamenti partigiani durante la Resistenza. Il medico Carlo Buratti, comandante di un distaccamento della 2a Brigata Garibaldi e fotoamatore, documentò la vita dei monti con degli scatti che quasi destabilizzano. Essi mostrano ambientazioni che, se non fosse per inequivocabili dettagli, suggerirebbero all'osservatore la sensazione di tranquille scampagnate in montagna.
Cambiando fronte... i fotocolor prodotti tra il 1940 e il 1944, nella Francia occupata dai nazisti, dal fotografo collaborazionista André Zucca, tramandano un Paese investito dai toni caldi del sole, con sereni cieli azzurri, reso accogliente da verdi prati e rallegrato da rossi accesi tra i quali anche quello delle bandiere con la svastica. La Parigi hitleriana, insomma, risultava gradevole e rassicurante così come la propaganda voleva. Il colore, quindi, non è da ritenersi semplicemente una proprietà di ciò che ci circonda, ma si rivela una componente basilare del messaggio che si vuole trasmettere, assumendo oltre a quello estetico anche un valore psicologico ed ideologico. Furono diffidenti, timorosi del colore anche tutti i grandi reporter della Leica, che pure di soppiatto qualche scappatella tricromatica se la concedevano. Paul Strand: colore e fotografia non hanno nulla in comune; Walker Evans: il colore tende a corrompere la fotografia; Edward Weston, il più cauto: sono mezzi differenti per scopi differenti; Henri Cartier-Bresson: gamma troppo limitata di toni. Ancora vent'anni fa una giuria del festival di Arles si dimise in blocco contro la proposta di una mostra di fotografie a colori (Michele Smargiassi).







     


Fonti bibliografiche e fotografiche

Massimo Vitale. Con l'animo che vince ogni battaglia - I molisani nella grande Guerra (1917-1918). Enzo Nocera Editor. Campobasso, 2007.
Centro per la fotografia Vivan Maier. 14-15 La Guerra a Colori. Catalogo della Mostra a cura di Federico Mininni. CM Stampa. Campobasso, 2018.
Paolo Giordano. La Grande Guerra rivista coi colori della storia. Il Quotidiano del Molise, 6 gennaio 2019
Paolo Giordano. La Ragazza di Reims fascino e suggestione de La Guerra a Colori. il Quotidiano del Molise, 14 gennaio 2019.
FOTOCRAZIA, Evoluzione e rivoluzione nel futuro, nel presente e nel passato del fotografico. http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
Albo dei Caduti della Grande Guerra. http://www.cadutigrandeguerra.it/Default.aspx