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mercoledì 10 ottobre 2018

La "Madonna di Costantinopoli" e la "Maddalena penitente" nella Cattedrale di Campobasso, I parte


 

Articolo pubblicato sul numero 12, mese di dicembre 2016, de "IL BENE COMUNE", anno XVI.


La "Madonna di Costantinopoli" e la "Maddalena penitente" nella Cattedrale di Campobasso.

prima parte

Le due opere, uniche superstiti del ricco patrimonio pittorico che decorò nel XIX secolo la chiesa della Santissima Trinità, "raccontano" alle nuove generazioni le vicende ottocentesche del Duomo cittadino.

di Paolo Giordano


Campobasso nel 1583
 (raccolta Rocca biblioteca Agelica, Roma)
A cavallo tra il secondo ed il terzo decennio del 1900 il pittore Amedeo Trivisonno fu chiamato ad affrescare la Chiesa della Trinità, nel Capoluogo Regionale, elevata in quegli stessi anni a Cattedrale. Il 29 giugno 1927, infatti, con la Bolla "Ad rectum et utile"1 era stata trasferita la sede episcopale da Bojano a Campobasso. Nelle sue "Memorie" egli descrive tutto il suo stato di tensione per la prova a cui veniva sottoposta la sua arte: "diciamo a questo giovane scontento/ che se la sua mano ancora incerta/ farà sgarbo, tosto in un momento/ la sua pittura tutta andrà coperta.". Era insomma un momento decisivo per la sua carriera: donare ai posteri un'opera immortale o precipitare nell'oblio qualora la sua pittura fosse andata "tosto... tutta coperta". A rendere ancor più ardua la sfida era la presenza nella chiesa di alcuni "quadri di pregevole fattura rappresentanti il Natale, San Girolamo e Santa Maria Maddalena. Il Trivisonno non escludeva che qualcuna di quelle opere potesse attribuirsi a Luca Giordano" (C. Carano - Sognando Il Rinascimento).
Ai tre dipinti citati si deve aggiungere la "Madonna di Costantinopoli" che, dagli inizi del 2012, è stata nuovamente esposta nella Cattedrale di Campobasso, per volontà del soprintendente di quella che all'epoca si chiamava Soprintendenza per i beni storici artistici ed etnoantropologici, il dottor Daniele Ferrara, sollecitato a sua volta dall'interessamento dello studioso Filippo Pece.
L'opera in questione, un olio su tavola (cm 220 x 185), scuola napoletana fine XVI secolo, unitamente all'olio su tela raffigurante la Maddalena Penitente (cm 197 x 174), scuola napoletana XVIII secolo, conservato negli uffici parrocchiali, faceva parte di una donazione di ben 14 quadri, provenienti dal Real Museo Borbonico, destinati ad adornare la chiesa della Trinità in Campobasso.
L'interessante storia di questi dipinti, un autentico spaccato sociale, politico e religioso, è stata dettagliatamente descritta nell'articolo di Silvia Sbardella "Tra donazioni e sparizioni-le vicende ottocentesche dei dipinti della chiesa della Santissima Trinità di Campobasso", pubblicato su "Napoli Nobilissima", maggio-agosto 2004.


Napoli: terremoto del 26 luglio 1805
Natura e Politica "cambiarono" il Molise
Due "terremoti", agli inizi del 1800, sconvolsero le nostre terre. Il primo fu un autentico movimento tellurico che si verificò il 26 luglio 1805, devastando il Molise e danneggiando il suo patrimonio edilizio inclusi, ovviamente, edifici pubblici e di culto. Il secondo fu un evento politico, la conquista da parte dei Francesi del Sud Italia ed i successivi governi dei Napoleonidi (Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat) che ridisegnarono l'assetto politico-istituzionale dell'allora regno di Napoli: si pensi su tutto all'eversione della Feudalità ed alla divisione del regno in 13 (poi 14) Province.
Campobasso divenne, così, capoluogo del Molise (realtà la cui crescita economica e culturale era in atto già da tempo) e, quindi, sede dell'Intendenza. L'intendente, primo rappresentante dello Sato nella provincia, aveva il compito, in una forma di Governo che potenziava le amministrazioni locali ampliandone i poteri, di sovrintendere al controllo ed al coordinamento di tutti gli organismi pubblici, gestendo le risorse finanziarie e provvedendo alla pubblicazione ed applicazione di leggi, decreti ed ordinanze.
E' in questo contesto che si attuò un processo evolutivo oramai non più contenibile, cioè l'espansione della città di Campobasso al di fuori delle anguste mura del borgo medioevale. Il 25 agosto 1814 Gioacchino Murat autorizzò, affidandone le sorti a Bernardino Musenga, "la costruzione del Borgo Gioacchino fuori l'antico recinto delle mura… verso la strada di Napoli" (Bernini Carri - Samnium, 1958).
In una "semplice" cittadina del contado, divenuta Capoluogo di Provincia, necessitava progettare un nuovo centro direzionale, identificandone i punti socio-amministrativi di riferimento. Apparve, pertanto, subito determinante riqualificare la chiesa della Santissima Trinità2 la cui ubicazione era oltremodo strategica trovandosi essa tra il nucleo antico e la città moderna. Tale luogo di culto, fortemente voluto agli inizi del 1500 dai Di Capua,3 subentrati alla famiglia Gambatesa-Monforte nel dominio della città, era nel decennio francese in corso di ricostruzione dopo i danni del sisma del 1805. Un glorioso passato ed un avvincente futuro si incontravano in una struttura "in cui l'intera popolazione si riconosceva e nella cui valorizzazione si sarebbe identificato il nuovo volto della città" (S. Sbardella).

La Chiesa Madre necessita di  adeguati Arredi
Nel 1823 la nuova chiesa era di fatto completata nelle sue parti essenziali ed essendo prossima la conclusione dei lavori, ci si pose il problema degli arredi interni, nello specifico di come arricchire le 
Francois Gérard: Gioacchino Murat 
nude pareti. L'intendente Spinelli (appartenete ad un'illustre famiglia di Fuscaldo) espresse epistolarmente al vescovo di Bojano, monsignor Gennaro Pasca (sollecitandone l'interessamento e trovando positivo e fattivo riscontro da parte dell'alto prelato), l'opportunità di decorare il nuovo tempio "con tre o quattro quadri di buoni autori", oltre al reperimento dei necessari altari, facendone richiesta a sua maestà Ferdinando I (i Borbone erano tornati a regnare nel nuovo stato denominato "Regno delle due Sicilie" recependo, però, parte delle riforme introdotte dai Francesi). L'intendente auspicava di ricevere in dono dei quadri e che, al peggio, il Comune provvedesse all'acquisto degli altari, attingendo in entrambi i casi ai beni provenienti da chiese soppresse, sia della Capitale che di altre città del Regno.
Fino all'agosto 1824 la questione rimase dormiente. Il problema fu risollevato da Nicolangelo Petitti, direttore dei lavori della Santissima Trinità. Egli, subentrato al defunto Musenga (morto il 24/10/1823), con lettera dell'otto agosto indirizzata al Comune evidenziava che "gli edifici consegnati al culto divino debbono alla solidità accoppiare la magnificenza, ed alla bellezza la semplicità, onde esprimere con questi caratteri tutto il bello ed il sublime della nostra Augusta religione. La chiesa della Santissima Trinità… manca di questi ornati". Il più gran cruccio del Petitti era che "l'infelice" Bernardino Musenga fosse morto "sventuratamente" senza lasciare traccia alcuna di quale idea avesse in mente "per adornare quest'edificio e renderlo Augusto". Il geniale progettista di sicuro aveva pensato con che "genere di ornati" abbellire la chiesa, ma l'assenza di disposizioni "assai noiamento ha arrecato: ed è difficile potersi dar riparo."
La mancanza di un testamento artistico-architettonico da parte del Musenga spinse lo Spinelli a "tornare alla carica" (agosto 1824) chiedendo la concessione "di alcuni de' quadri meno necessari del Museo Borbonico", questa volta spalleggiato dal marchese Ruffo, ministro di Casa reale, il quale esortò il sovrano, in maniera velata e discreta, affinché concedesse quanto richiesto dai molisani.
Il 2 settembre 1824 Ferdinando I stabilì di destinare alla principale chiesa campobassana alcuni quadri presenti nel magazzino del Real museo borbonico. Ovviamente, a questo punto, necessitava conoscerne il numero e le dimensioni. Ne furono richiesti 10 (il 31/10/1824) "della lunghezza ciascuno di palmi 16 in 20 e della lunghezza di palmi 8 in 12", praticamente circa 4-5 metri di altezza per 2-3 metri di larghezza (un palmo corrispondeva a 0,26 m). La cortese e quasi immediata risposta (6/12/1824) fu però poco incoraggiante: ne abbiamo di meno alti e più larghi! Poiché, però, i richiedenti si erano espressamente dichiarati disposti, comunque, ad accontentarsi del materiale disponibile, sembrò si fosse oramai prossimi alla conclusione di tutta l'operazione con il trasferimento di 11 quadri dalla Capitale a Campobasso.
Pasquale Mattej: Campobasso (1856)
Ma contro ogni previsione, il 16 dicembre 1824, il donativo venne bloccato!
Cosa era accaduto? Nel 1824 erano stati portati a termine i lavori di costruzione dell'ala orientale del Palazzo dei Regi Studi, sede del Real museo borbonico e, pertanto, si era programmato un riordino del museo stesso ad opera di Vincenzo Camuccini, che in passato si era occupato della tutela del patrimonio artistico dello Stato Pontificio. Ogni spostamento, quindi, veniva giocoforza sospeso per poter procedere ad un accurato inventario, ad una attenta classificazione e ad una meticolosa valutazione delle opere conservate, "non si dee credere che non vi sia nulla di buono (tra i quadri di scarto), perché vi sono sempre cose non dispregevoli e da non gettarsi via".
Nel 1826 venne, in primo luogo, stilata dal Camuccini una relazione sulle condizioni della pinacoteca del Real museo e poi si provvide a redigere un elenco di opere che, innanzitutto, sarebbero state destinate alla decorazione dei palazzi reali. Con le restanti, a fronte di opportuna richiesta da parte degli interessati, si sarebbe provveduto a restituire decoro e dignità alle chiese spogliate dalle soppressioni napoleoniche.
In quello stesso anno il nuovo sindaco di Campobasso, Domenico Mazzarotta, tentò di sbloccare la situazione inviando a Napoli Michelangelo Ziccardi ed il pittore oratinese Isaia Salati4, in veste di incaricati dal Comune, per dare compimento all'impegno preso a suo tempo dal Re, ma "il colpo di mano" non ebbe esito positivo.
Essendo nel 1829 i lavori di costruzione della Santissima Trinità oramai conclusi, ed alla luce dell'inconfutabile volontà dimostrata dal sovrano di voler donare alla nuova chiesa quanto promesso, il segretario generale dell'intendenza di Molise, l'abruzzese Giambattista Chiarini, mise in atto una strategia vincente. Egli incaricò Florindo Guacci di recasi, in nome e per conto del Comune di Campobasso, a Napoli al fine di "ritirare i quadri promessi". Il Chiarini ne informò contemporaneamente anche il ministro di Casa reale e, nel contempo, fece pervenire -attraverso il Guacci- una lettera confidenziale ad un proprio amico, funzionario del Real museo borbonico (tal de Crescenzi), invitandolo a perorare la causa in corso.
Campobasso Capoluogo del Molise
La nuova missione sortì un effetto immediato per quel che riguardava i tempi, ma purtroppo tutto sembrò andare a rotoli una volta recatisi a visionare le opere "dacchè di quadri disponibili ve ne erano pochissimi e tutti di cattiva qualità, atteso le scelte fattesi da quasi tutte le Comuni del Regno". Inoltre, presso il Real museo, non esisteva alcuna disposizione ministeriale in merito alla donazione, per cui bisognava procurarsi almeno "qualche commendatizia pel Capo di Ripartimento del Ministero di Casa Reale f.r. Dr. Luigi Pasca, dal quale dipendeva la cosa". Ed ecco che il Guacci trasformò l'apparente sconfitta in totale vittoria! Grazie alla mediazione del cognato, Salvatore Melchionna (Capo di Ripartimento della Pubblica Istruzione), stretto amico del Pasca, egli fu tempestivamente ricevuto e le sue istanze furono subito attentamente valutate. Luigi Pasca chiese 4 giorni per poter studiare il problema. Il 9 luglio 1829 incaricò il direttore del Museo, Michele Arditi, di verificare se si potesse tener fede all'impegno preso sin dall’autunno del 1824.
Il 22 luglio Guacci comunicò con soddisfazione al Chiarini che il Re (Francesco I succeduto al padre Ferdinando) aveva ordinato la consegna non di 10, bensì di 12 quadri che egli stesso avrebbe potuto scegliere tra quelli che, pur se nei depositi, non era concesso a tutti di vedere.

L'elenco delle opere donate dal Re
L'elenco delle opere donate fu il seguente:
La Nascita di Gesù; l'Adorazione dei Magi; la Madonna in un tondo e due Santi nel basso; Santa Maria Maddalena con Angeli che la portano in gloria; San Girolamo in adorazione; la Madonna col Bambino in gloria, santa Rosa ed altro Santo; la Madonna col Bambino in gloria e due Santi nel basso (la Madonna di Costantinopoli ndr); Martirio di Santa Orsola con molte figure; un Santo Eremita che adora la Madonna col Bambino in gloria; Cristo alla colonna con manigoldi; San Tommaso con altri religiosi ed un altro San Tommaso con altri religiosi. Tolti i primi due, le cui dimensioni erano le maggiori (cm 238 x 582), gli altri si aggiravano tutti tra i 100-300 cm di altezza ed i 100-250 di larghezza.
La partita sembrava oramai conclusa quando da Campobasso giunse un'ulteriore richiesta. Antonio Bellini, architetto della fabbrica della chiesa della Santissima Trinità, aveva espresso il bisogno di altri due quadri, per l'adornamento delle due volte dei cappelloni laterali.
Il tempismo e la scaltrezza diplomatica del Chiarini (nominato nel frattempo Intendente del Molise) unitamente all'intuito strategico del Guacci (in "prima linea" in quel di Napoli), conseguirono ancora una volta pieno successo. Tra lettere ufficiali di richiesta e di ringraziamento, missive private personali e capacità relazionali e dialettiche… nonché qualche opportuna conoscenza, si riuscì ad aumentare il numero dei quadri di altre due unità, aggiungendo al ricco corredo il Lazzaro dell'Evangelo ed il Ritorno del Figlio Prodigo (entrambi cm 238x383).
Il prezioso patrimonio pittorico, 3 tavole e 11 tele, venne finalmente trasportato a Campobasso. I dipinti, dopo esser stati opportunamente restaurati e corredati di nuova ossatura in legno, furono collocati sulle pareti della navate, nei cappelloni ed i due San Tommaso trovarono posto in sacrestia.
Era stato pienamente centrato l'obiettivo prefissatosi. La una nuova chiesa era il concreto emblema di quella che potremmo definire una riuscita "ricostruzione post sisma", poiché testimoniava il risorgere dalle macerie del devastante terremoto del 1805. Ma, soprattutto, essa era simbolo della nascita di una nuova città proiettata verso un futuro di sempre maggior progresso politico, economico e sociale. Il 14 ottobre 1829 la chiesa della Santissima Trinità fu solennemente riaperta al culto e, sicuramente dovette apparire al popolo intervenuto meravigliosa ed imponente, proprio grazie al suggestivo patrimonio pittorico ivi esposto, a dispetto delle presunte critiche rivolte al progetto architettonico5.

Il canonico Alfonso Filipponi "inaugura" la nuova chiesa
Maddalena Penitente (foro Mario Gravina)
In tale occasione il canonico Alfonso Filipponi6 pronunciò l'Orazione Inaugurale e, nel rivolgersi ai fedeli presenti, tramandò ai posteri una dettagliata "fotografia" del sacro luogo: "Eccola questa divota popolazione. Oh come negli obbietti di santità qui raccolti in vaga vista dalla sua religione, trova essa mille stimoli e nuove virtù! come mostrasi assorta nelle tele, delle quali fé più belle queste mura l'animo pur troppo religioso del nostro augusto Sovrano! L'illustre pennello dell'artista vuole eccitare in noi l'umiltà? e ci dipinge l'Onnipotente in un presepe; i sentimenti di adorazione? e ci mostra i Magi a piedi di Gesù; gli effetti tremendi del delitto? e ci delinea il Redentore sferzato in una colonna; la fiducia nel Nume? e ci rammenta la Maddalena innanzi ad una Croce; la penitenza? e ci dimostra un Girolamo nella spelonca;la necessità di ricorrere al padre comune, e ci fa parlare dalla tela del figliuol prodigo; l'elemosina e vedasi Lazzaro obbliato fra le cene del crudele Epulone; il premio della virtù, e ci addita Maria, che sen vola per le regioni del Cielo sopra cori di Angioli; la divozione per la madre di Dio, e la Vergine ci si rappresenta là spegnere un incendio distruttore (la Madonna di Costantinopoli ndr), qui portentosa fra le nevi cadute sull'Esquilino nel fervore dell'ardente stagione, più oltre prodiga di grazie verso chi la saluta con Gabriello: Benedetta fra le donne."
Dal 1829, e per i successivi 30 anni, "alla vista di que' santi oggetti avvivati in queste tele il vostro spirito già si accende... grida con trasporto. Io mi sento maggiore di me stesso; io non anelo che le strade del Cielo". Il Filipponi, nel suo discorso, pur se probabilmente per mero esercizio retorico, proclamava di confidare che "già l'empio n'è preso da meraviglia, e convinto meco ripete, che questi segni esterni ajutano la fede, accendono il divino amore, nudriscono la speranza, concentrano l'attenzione, ci uniscono ai nostri fratelli...".
Non sta a noi stabilire se fossero empi o meno, ma di sicuro sarebbero dovuti essere "fratelli" (se non in Cristo... almeno d'Italia) coloro che, nel 1860, trasformarono la Santissima Trinità in presidio delle milizie mobili, inviate dal nuovo governo per la lotta al brigantaggio post unitario. La struttura, spentosi il fragore delle battaglie, non venne comunque più riaperta al culto, bensì fu trasformata in caserma, attraverso un totale sconvolgimento edilizio tale (le navate furono chiuse e vi si ricavò un secondo piano) da far passare la tesi che sarebbe stato meno dispendioso costruirne una nuova piuttosto che sobbarcarsi il costo dei lavori di recupero. In realtà parrebbe essersi trattato di un deliberato atto di anticlericalismo, "un inutile insulto alla religione", poiché i locali ivi ricavati risultarono "freddi, umidi ed oscuri"
La Cattedrale di Campobasso, 
foto Mario Gravina
Il vescovo di Bojano aveva nel tempo richiesto, con il dovuto tatto, la restituzione "della Trinità" ma, all'ennesimo rifiuto, fu abbandonata ogni forma di diplomazia. In data 17 ottobre 1885 l'arciprete don Carlo Pistilli7 citò in giudizio il Comune cittadino: il sindaco venne invitato a comparire in Tribunale sia per "rilasciare e consegnare all'istante" la chiesa e sia per "ridurre il locale nello stato in cui era prima dell'occupazione" con tutti i suoi arredi.
La Santissima Trinità tornò a disposizione del clero solo nel 1888, quando l’amministrazione comunale accantonò definitivamente l'idea di trasformarla in teatro. Nel gennaio di quell'anno, infatti, era stato inaugurato il teatro Margherita.
Del ricco e pregevole corredo pittorico non rimaneva quasi più nulla ma, soprattutto, non ve ne si trovava alcuna traccia nei verbali di presa di possesso della chiesa da parte del Comune all'atto della "confisca". La sola opera ad essere citata risultava un statua della "della Vergine Assunta".
Superficialità? Approssimazione? Cattiva fede?
Colpisce, di primo impatto, la differenza con i governi e gli amministratori precedenti che, pur senza alcun collegamento dinastico (i Borbone di Napoli ed i Napoleonidi), avevano recepito e conservato alcune innovazioni introdotte dagli "usurpatori", ritenendole degne di valore. Lo stesso dicasi della sensibilità dimostrata verso l'arte e la religione da parte di Intendenti, Sindaci e notabili cittadini.
Di sicuro, alla fine del 1800, buona parte di quelle opere dovevano essere ancora in città a disposizione di chi se ne era impossessato e, probabilmente, se ci fosse stata opportuna collaborazione, le stesse sarebbero potute tornare tutte ad adornare la Chiesa Madre che, per la seconda volta in meno di un secolo, si trovava a dover risorgere dalle sue stesse ceneri.

Si ringraziano, per la disponibilità e per il loro operato, il professor don Michele Tartaglia, arciprete di Campobasso parroco di Santa Maria Maggiore (Chiesa Cattedrale), il dottor Daniele Ferrara direttore del Polo Museale del Veneto ed il dottor Mario Gravina esperto amante dell'arte fotografica.
  
Bibliografia
Silvia Sbardella, Tra donazioni e sparizioni le vicende ottocentesche dei dipinti della chiesa della Santissima Trinità di Campobasso, Napoli Nobilissima, quinta serie – volume V – fascicoli III-IV- maggio agosto 2004
Alfonso Fillipponi, Orazione Inaugurale per la nuova Chiesa della SS. Trinità aperta in Campobasso a' 14 ottobre 1829, 1829
Giuseppe Di Fabio, I vescovi di Bojano e di Campobasso-Bojanio, 1997
Giuseppe Di Fabio, Storia della chiesa della SS. Trinità in Campobasso, 1999
Filippo Pece, La Cattedrale di Campobasso, 2006
Corrado Carano, Sognando il Rinascimento. Amedeo Trivisonno, pittore Molisano, 1992
Amedeo Trivisonno, Memorie, 1989
Angelo Tirabasso, Breve Dizionario Biografico del Molise, 1932
Michele Ruccia, Mons. Alberto Romita vescovo di Bojano-Campobasso, 1942
AA.VV., Oratino, pittori scultori e botteghe artigiane tra XVII e XIX secolo, 1993

 NOTE
  
1 Sulla facciata della Cattedrale è presente una lapide commemorativa che ricorda l'ingresso del Vescovo, il primo della diocesi di Bojano-Campobasso, nella nuova Sede Episcopale. Con tale trasferimento si concluse una plurisecolare vicenda che aveva contrapposto a lungo l'antica Città di Bojano, che era stata Sannita e poi Romana, alla molto più "giovane" Campobasso, la cui prima citazione ufficiale risaliva al 878 (Chronicon Sancte Sophie). Con il trascorrere del tempo, la posizione più favorevole, sia da un punto di vista economico-amministrativo che climatico (maggiormente salubre, come riportavano le cronache), aveva indotto a progettare lo spostamento dell'Episcopio. L'operazione, però, fu strenuamente avversata da clero e popolo bojanesi. Solo nel 1927 monsignor Alberto Romita riuscì in ciò in cui i suoi predecessori avevano fallito! Il testo della lapide, ripulita alla fine del 2015, recita: Summo civium gaudio/ Campibassi episcopus dioecesis primus/ Albertus Romita/ postridie idus octobres MCMXXVII/ anno quinto fascalis imperii/ hoc templum adiit/ R.P.pot. [con sommo gaudio dei cittadini, Alberto Romita, vescovo di Campobasso il primo della diocesi (ad esserlo), fece ingresso in questo tempio il 16 ottobre 1927, anno quinto dell'era fascista. Renato Pistilli podestà].
  
2Nel concedere l'autorizzazione ad espandere la città fuori dalle antiche mura Gioacchino Murat aveva anche emanato un decreto con cui ordinava, in riferimento ai lavori di costruzione della chiesa matrice, di "doversi nel bilancio del Comune stanziare ogni anno una somma proporzionata alle sue risorse fino al completamento dell'opera".
  
3 La chiesa della Santissima Trinità fu costruita extra moenia, per volere di Andrea Di Capua, in un'epoca in cui la popolazione viveva ancora tutta arroccata sulle falde del monte dominato dall'antico castello. Ospitò da subito la Congrega dei Trinitari, istituita quale contrappeso al potere esercitato da quella più antica dei crociati. La prima congrega era costituita prevalentemente dalle nuove famiglie stanziatesi di recente nel territorio, l'altra, invece, che faceva capo alla chiesa di Santa Maria della Croce, era composta da "autoctoni". La convinzione comune vorrebbe i primi tutti colti e benestanti, mentre i secondi appartenenti ai ceti meno abbienti, da sempre residenti in Campobasso. Ma risulterebbe poco credibile pensare che fino al 1504 (riconosciuta come la data di fondazione della S.S. Trinità) a Campobasso non vi fossero famiglie di antico ed elevato lignaggio, nonché appartenenti a ceti abbienti (basti pensare al ricco mercante Cola Ferracuto di cui scrive il Gasdia ne "il più facoltoso Campobassano del XV secolo"). La contrapposizione, più che sociale fu dunque politica e, con il tempo, diede vita ad un drammatico progressivo aumento della violenza che portò ad una vera e propria guerra tra le due fazioni cittadine. Dalle lotte tra Trinitari e Crociati prende vita la storia dell'amore contrastato tra la trinitaria Delicata Civerra ed il crociato Fonzo Mastrangelo.

4 Al pittore oratinese Isaia Salati (1787-1864) fu affidato mandato, anche dal Decurionato del suo paese natale, di rilevare nel Real museo borbonico (presso cui risulta abbia lavorato come "impiegato") il quadro.. o i quadri che sua maestà aveva deciso di donare alla chiesa madre di Oratino. Egli riuscì ad ottenerne ben due che, però, non furono mai consegnati e, successivamente, ironia della sorte, vennero riassegnati proprio alla Santissima Trinità di Campobasso. Da un documento datato agosto 1827 si apprende che le due opere erano una "Madonna del Rosario e Santi nel basso" e "Madonna con Bambino ed i Santi Giovanni Battista e Pietro", ovvero proprio la Madonna di Costantinopoli esposta nella Cattedrale del Capoluogo.
  
5 A costruzione ultimata la chiesa risultò più bassa dell'antica, poco luminosa e, a giudizio di alcuni, squilibrata. Le critiche furono numerose e feroci tanto che, secondo una tradizione non confermata, avrebbero spinto il progettista Musenga al suicidio. Nulla però suffraga questa ipotesi anche se è sicuramente inconfutabile che il Musenga, in quegli anni, fosse estremamente assorbito e sfiancato dai tanti impegni lavorativi. Sarebbe plausibile quindi un suo crollo psicofisico. Una tradizione orale, raccolta dal pittore Amedeo Trivisonno, e da questi trasmessa all'arciprete don Pasquale Pizzardi, narra che quando re Ferdinando II venne in visita ufficiale a Campobasso (12/09/1832), dopo aver visitato la Santissima Trinità, avrebbe esclamato con la sanguigna ironia che lo contraddistingueva, "agg' vist' 'a chiesa. Mi piace. Avit' fatt' nu bell' scatulone per i cavalli". Molto probabile, però, che tale racconto sia di pura fantasia e che le tante critiche in realtà celassero il tentativo di damnatio memoriae ai danni di un personaggio, tanto amato quanto odiato, ma di sicuro eccellente e qualificato progettista, qual fu appunto Bernardino Musenga.
  
6 Il sacerdote Alfonso Filipponi (1785-1856), parroco di San Leonardo, "fu uomo di grande ingegno, letterato di specchiata fama, cultore delle muse e della filosofia, che per oltre un trentennio insegnò nel Collegio Sannitico. L'essere stato attaccato al vecchio regime borbonico, non gli ha fatto godere fra i campobassani quella popolarità che altri, meno degni di lui hanno goduto. Ottimo scrittore, purista ed abile porgitore fece si che fosse l'oratore ufficiale di tutte le grandi circostanze. E fra i tanti elogi che recitò degnissimo di nota è quello di Michelangelo Ziccardi." Fu anche autore di quattro tragedia. "Merito non ultimo suo fu l'esser stato il pioniere dell'insegnamento agricolo nella provincia, propugnando nella Società Economica il progetto dell'insegnamento popolare agrario." (Angelo Tirabasso).

7 "Carlo Pistilli fu arciprete di Campobasso dal 1874 al 1906. Istituì, con grandi sacrifici, l'asilo di mendicità, nell'antico convento dei cappuccini inaugurato il 1880" (Angelo Tirabasso)




martedì 9 ottobre 2018

10 ottobre 1943: La morte di Monsignor Secondo Bologna a Campobasso. "A cold case" finalmente risolto

La morte di Monsignor Secondo Bologna
Un "cold case" finalmente risolto
Il Quotidiano del Molise del 07 ottobre 2018

di Paolo Giordano

"Signore, se per la salvezza di Campobasso occorre una vittima, prendi me ma salva il mio popolo".
Queste furono le parole pronunciate da monsignor Secondo Bologna, Vescovo della Diocesi di Bojano-Campobasso, nell'omelia del 10 ottobre 1943. La città capoluogo viveva ore cruciali: i tedeschi in ritirata, dopo aver inferto danni ai siti nevralgici, avevano minato le principali vie di comunicazione con il fermo intento di farle esplodere, per ostacolare l'avanzata avversaria.
L'alto prelato, nella stessa giornata del 10 aveva tentato, inutilmente, di indurre a più miti consigli gli alti comandi germanici. Irremovibile si era rivelata la posizione dello stato maggiore tedesco: "Ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve saltare in aria salterà, ciò che deve essere distrutto sarà distrutto, altrimenti si avvantaggerebbero i nostri nemici... è la guerra!".
Monsignor Bologna, uomo di grande Fede e profondo misticismo, comprese che non rimaneva altro da fare se non "pregare Iddio".
da "Pace si scrive senza H" (A. D'Ambrosio)

Nella serata di quel fatidico giorno, alle ore 21, riiniziò il bombardamento di Campobasso. Il Vescovo si era ritirato  nella Cappella del Seminario per recitare il Santo Rosario e lì fu colpito dalle schegge di un'esplosione, a seguito della quale era crollata parte del tetto: anche una trave e dei calcinacci travolsero il Vescovo che spirò, pochi minuti più tardi, nella Caserma dei Regi Carabinieri ubicata di fronte al Seminario. Nella circostanza morì anche suor Lucia Brunelli, delle piccole discepole di Gesù.

Per dovere di cronaca va ricordato che la Cappella, luogo che avrebbe meritato forse maggior devozione, oggi non esiste più essendo stata demolita, decenni orsono, nei lavori di ammodernamento per la realizzazione della sala conferenze Celestino V.
A questo punto meritano testuale citazione le memorie del canonico Michele Ruccia, già assistente del predecessore di monsignor Bologna, sue eccellenza Alberto Romita. Il suo racconto è riportato nell'imprescindibile testo di Nicola Felice "Quando Campobasso divenne Canada Town", pietra miliare per lo studio della Storia Cittadina.
I funerali di mons. Bologna (foto Trombetta)
"I suoi funerali furono di guerra. Kesserling arrivò la mattina dopo a rendere omaggio alla salma e a garantire che al momento in cui il vescovo fu colpito i cannoni tedeschi non avevano sparato... Chi uccise allora il Vescovo? I tedeschi o gli alleati? Domanda oziosa ed inutile. Iddio lo aveva preso con sé, vittima di espiazione perché Campobasso fosse salva".
Ineccepibili le parole del sacerdote Ruccia che però non aiutano a risolvere il dilemma.
Ma oggi questo "cold case" ha una sua possibile soluzione. Finalmente potrebbe essere archiviato come "risolto" uno di quegli "omicidi rimasti a lungo senza un senza colpevole". Uno di quei delitti irrisolti ("casi freddi"), fatti di cronaca piuttosto noti, autentici misteri a cui si sono appassionati in tanti, avendone parlato a lungo i media.
Ripercorriamo i passaggi salienti, con l'ausilio del vasto campionario iconografico proveniente da oltreoceano.
Nella prima decade dell'ottobre 1943 la linea del fronte si avvicinava sempre più a Campobasso. Per favorire l'avanzata delle truppe canadesi a monte Gildone era stata posizionata l'artiglieria a supporto dei fanti. I tiri calcolati alla massima gittata investirono la città dalle 21 del giorno 10, prediligendo, tra gli obiettivi, la stazione e la caserma dei carabinieri. A questo cannoneggiamento serale nessuno "rispose", come si desume leggendo le memorie del generale J.C. Murchie.
Da un lato i tedeschi poco propensi a sprecare materiale bellico, in una controffensiva dal dubbio risultato, non riuscendo con il calar delle tenebre a centrare alcun bersaglio.
Dall'altro gli artiglieri del 1° Air Landing Light Infantry in appoggio, con i propri cannoni da 75 millimetri, alla Prima Divisione Canadese prossima ad occupare Campobasso. Questi riversarono sulla città quanto più "fuoco possibile", secondo una tradizione tristemente consolidata nella tecnica militare degli anglo-americani (più dei secondi), caratterizzata dall'uso "indiscriminato dei bombardamenti".
1° Air Landing Light Infantry a Gildone
Ma quali erano le caratteristiche delle bocche da fuoco adoperate dal "first Airlanding"?
L'obice M1 Pack Howitzer (entrato "in servizio" nel 1927) è stato uno dei primi, e migliori, esempi di artiglieria per l'appoggio della fanteria. La gittata massima era di quasi 9 chilometri, quindi abbondantemente nel campo d'azione posto tra Monte Gildone e Campobasso. Non è da trascurare, inoltre, l'entità dei danni che un proiettile da 75 mm è in grado di provocare.
Esistono, tra l'atro, delle prove visive che "inchiodano mister
il dipinto di Will Ogilvie
Pack Howitzer": una foto fonte internet, scovata da Nicola Felice, con le operazioni da Gildone nell'ottobre 1943 ed un dipinto di Will Ogilvie (1901-1989), conservato nel "Canadian Museum di Ottawa", che, incontrovertibilmente, provano la presenza in loco dell'obice. In quest'ultimo acquerello sono stati riprodotti anche dei carri armati Sherman M4, uno dei quali potrebbe essere quello "danneggiato negli scontri alla periferia sud della città, depositato nei pressi del campo sportivo comunale, venne utilizzato dai bambini quale curiosità e gioco" (N. Felice - Quando Campobasso divenne Canada Town).

bimbi  giocano sullo Sherman (foto A.P.S.)
Fermo restando il tentativo di sdrammatizzare uno dei più tragici momenti della storia recente, ancora una volta deve essere evidenziato come appaia necessario procedere all'acquisizione, a vantaggio delpatrimonio cittadino, di tutte le immagini, gli scritti, le informazioni e le testimonianze di vario genere (ovunque rinvenibili) riguardanti gli eventi legati all'ultimo conflitto mondiale.
In tal modo si sprovincializzerebbero, in via definitiva, le vicende locali, facendole finalmente entrare di diritto nella storia con la "S" maiuscola, da cui sono ancora ingiustamente escluse.

L'Immacolata Concezione di Paolo Saverio di Zinno, opera prima dell'artista campobassano

Il Quotidiano del Molise dl 23 luglio 2018

di Paolo Giordano



Prenderà le mosse dalla chiesa di San Bartolomeo, con una conferenza il 20 luglio, “il Museo Itinerante Estivo” per conoscere, a partire dal 22 luglio, le opere ed i luoghi in cui visse Paolo Saverio Di Zinno, nel trecentesimo della sua nascita.

La chiesa di San Bartolomeo Apostolo a Campobasso
Nell’artistica struttura romanica è conservata l’Immacolata Concezione, cronologicamente la prima statua censita di Paolo Saverio, non antecedente al 1740, che sarebbe stata donata dall’autore stesso alla chiesa in cui era stato battezzato. Come scrive anche il prof. don Michele Volpe. nell’Annuario del R. Liceo Ginnasio “M. Pagano” del 1924/1925, sarebbe “la prima opera giovanile dello scultore campobassano, anzi (se è vera la tradizione) la prima da lui eseguita”. Per anni conservata nei depositi della Sovrintendenza è tornata laddove era stata esposta alla venerazione dei fedeli, per almeno due secoli, solo nel 2011, quando, grazie all’impegno dell’avvocato Alberto Pistilli Sipio, la chiesa di San Bartolomeo è stata “restituita alla vita”, e quindi al culto. Essa, con molte altre opere appartenenti all’arredo dell’antica chiesa, è stata ivi ricollocata per interessamento dell’allora soprintendente Daniele Ferrara.

L'Immacolata concezione di Paolo Saverio di Zinno

Accurato quanto impegnativo è stato il suo restauro. L’umidità della nicchia ricavata nelle vetuste mura, in cui era stata a lungo collocata, ed i danni causati dai tarli, l’avevano seriamente compromessa. Per poter riportare il capolavoro ad uno stato quanto più vicino possibile a quello originario, nell’impossibilità di conservare integralmente uno dei diversi livelli intermedi di colore, si optò per il recupero -pur se lacunoso- della policromia originale. Il Consorzio C.T.R. di Roma, artefice nel 1992 del restauro, effettuò anche una velatura delle lacune pittoriche e delle abrasioni, con un conseguente trattamento di equilibratura cromatica delle parti lignee a vista.
Come tramandato dalle fonti, Paolo Saverio Di Zinno si formò nella bottega di Franzese in Napoli. Successivamente tornò in forma più stabile nella sua città natale. Ciò avvenne in un momento sociale e politico particolare: il potenziamento dei commerci basati su allevamento e transumanza si erano rivelati propedeutici per una fase di sviluppo economico che incoraggiava e favoriva anche la produzione artistica. Tra l’altro, nel 1742, a Campobasso si era concluso l’iter per il riscatto della città al demanio, con conseguente affrancamento dal feudatario ed affermazione di gruppi sociali emergenti. Proprio in tale contesto, tra il 1740 ed il 1742, fu consegnata al clero di San Bartolomeo l’Immacolata Concezione.
Prima del restauro
Pur se erano ancora lontani sia la proclamazione del dogma dell’immacolato concepimento di Maria (Pio IX con la bolla “Ineffabilis Deus”, 8/12/1854) che le apparizioni di Lourdes (1858), in cui la Vergine dichiarò di essere “l’Immacolata Concezione”, la pittura, quanto la riflessione teologica, si erano già soffermate, nel corso dei secoli, a meditare su tale tema. “I Padri della Chiesa avevano accostato Eva e Maria per sottolineare che la Vergine era stata concepita senza il peccato, e con il passare del tempo l’assunto Semper Virgo. Dei Genitrix. Inmaculata era stato abbracciato da un numero sempre crescente di fedeli e difeso dai pontefici... Il tema pittorico (nonché scultoreo, ndr) dell’Immacolata trova nascita nell’Italia meridionale e particolare diffusione in Spagna. Si definisce dal punto di vista iconografico intorno alla fine del Quattrocento, e tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento gode di grande popolarità in Italia e, in modo speciale, in Spagna.” (R. Papa, L’Immacolata Concezione alcuni elementi di iconologia, Zenit on line 2013). Fino alle apparizioni di Lourdes, quando andò diffondendosi una nuova interpretazione iconografica strettamente legata a quei fatti, le
immagini dell’Immacolata dovevano tradurre la Visione dell’Apocalisse. Andava prevalentemente raffigurata “una bellissima bambina, nel fiore della sua età, da dodici a tredici anni, con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance. Con tonaca bianca e manto blu, vestita del sole, una corona imperiale sulla testa, sotto i piedi, la luna… più chiara e visibile la mezza luna. Adornasi con serafini e con angeli interi. Il dragone, al quale la Vergine spaccò la testa trionfando dal peccato originale… se potessi lo eliminerei per non disturbare il quadro” (Francisco Pacheco, “Arte de la Pintura”,1638). La Vergine del Di Zinno, come tutte quelle prima di Lourdes (quando i
dopo il restauro
piedi della Vergine toccheranno il terreno) sta ritta sulle nuvole da cui forse sbucavano cherubini e/o angeli. Allo stato attuale sono evidenti solo tracce che testimoniano la presenza della Luna e del serpente/dragone. Se avesse avuto una corona o un’aureola di stelle lo si potrebbe dedurre solo con un’osservazione ravvicinata. Ci appare, comunque, “nel fiore della sua età, bellissima bambina con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance”, ed è stata collocata dall’artista in uno spazio assolutamente ideale, a metà tra cielo e terra. La sua veste è celeste, anziché bianca, rispondente al gusto cromatico del tempo in cui fu realizzata. Il Manto, però, è rigorosamente blu. I colori, quindi, rispondono al requisito di “donna vestita di sole” come dalla visione della Apocalisse (Ap 12,1).
Con il restauro è apparso che la mano sinistra assolveva ad una sua peculiare funzione. Improbabile, anche se non impossibile, che reggesse qualche specifico oggetto simbolico o legato ad un particolare culto. Molto più plausibile, invece, è che ad essa venissero appese corone del Santo Rosario, soprattutto in considerazione dell’importanza di tale preghiera nella storia del cattolicesimo.
Ben ricca è stata la produzione artistica di Paolo Saverio Di Zinno, ma da sicuro questa statua, conservata a San Bartolomeo in Campobasso, evoca particolari suggestioni affascinando, in modo unico, sia l’addetto ai lavori che il semplice visitatore.