ANNO XIX - n° 3 - marzo 2019
14-18 LA GUERRA
A COLORI
"Il
documento fotografico arricchito del colore avvicina -coinvolgendo i sensi e le
emozioni- ai volti, ai luoghi, alla distruzione ed alla cruda sofferenza"
(dal catalogo della Mostra).
Parte prima
Paolo Giordano
Si
è svolta a Campobasso, dal 10 novembre 2018 (centenario dell'armistizio di
Compiègne sottoscritto l'11/11/1918) al 13 gennaio 2019, la mostra fotografica "14-18
La Guerra a Colori". Ospitata nei locali della Galleria Spazio Immagine,
curata da Reinhard Schulz ed allestita da Massimo Di Nonno, è stata presentata
dal Centro per la Fotografia Vivan Maier. Resa possibile anche grazie alla
collaborazione di Europe Direct Molise, con il cofinanziamento dell'Unione
Europea, ha ricevuto i contributi di Colavita (industria olearia) e di Laser
Milano. L'evento si è inserito tra le iniziative d'interesse storico-culturale
patrocinate dalla "Commissione dell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale
2018", ed è stato affiancato da un'analoga iniziativa promossa dal MiBAC, Polo
Museale del Molise.
Più
di cinquanta immagini uniche hanno raccontato la prima Guerra Mondiale, così
come non la si era mai vista o immaginata. Come evidenziato dal curatore
Reinhard Schultz "Il sangue versato
sui vari fronti era rosso, ma le immagini tramandate nella memoria delle
generazioni successive sono in bianco e nero". Nell'immaginario
collettivo, infatti, sono appunto questi ultimi due i colori della guerra e solo la pittura prima, ed il cinema poi,
hanno interpretato i combattimenti in policromia, facendoli percepire, però,
come delle messe in scena. Al pari di un dogma, pertanto, sembrerebbe che le
battaglie, la distruzione, la morte, per non perdere la loro carica drammatica,
non possano che essere monocromatiche. Eppure, sin dal 7 gennaio 1839, quando
François Jean Dominique Arago annunciò all'Académie des Sciences di Parigi l'innovativa
invenzione di Louis Jacques Mandé Daguerre, fu assunto il solenne impegno di poter
al più presto fotografare i colori.
Il nastrino di
tartan scozzese di Maxwell
Il Nastrino di Tartan Scozzese |
In
realtà ne presentò una "dimostrazione", facendo coincidere quella
foto con la prima delle immagini virtuali. Lo scatto, che riproduceva il
nastrino di tartan, non è mai materialmente esistito. Non si poteva toccare,
fluttuava sullo schermo, prodotto impalpabile dell'incrocio dei fasci luminosi
di tre lanterne magiche, ciascuna delle quali proiettava una diapositiva
monocroma: una verde, una azzurra, una rossa.
Prima
di Maxwell, un pastore battista di Westkill, Levi Hill, aveva sostenuto di
essere riuscito a catturare i colori sin dal 1851, ma costui morì in odore di
ciarlataneria a causa della mancanza di prove concrete a sostegno di quel che
affermava. Ricevette giustizia postuma nel 1933, grazie al ritrovamento di
materiale che dimostrò la veridicità di quanto da lui asserito.
foto Marisa Pia Boscia |
Agli
albori del nuovo secolo, furono i fratelli Lumière, padri del Cinematografo, a
dar seguito a quanto a suo tempo promesso all'Académie des Sciences di Parigi:
fotografare i colori!
L'avvento dell'Autochrome
foto Massimo di Nonno |
L'epocale
traguardo raggiunto fu, però, accompagnato da una serie di oggettive
controindicazioni. Per raggiungere il loro scopo, infatti, i fotografi dovevano
affrontare, oltre a costi alquanto elevati, non poche peripezie, utilizzando
enormi macchine fotografiche e "trascinandosi dietro" le ingombranti
scatole di legno contenenti le necessarie lastre di vetro. Era, inoltre, impossibile
realizzare istantanee per via della bassa sensibilità; la granulosità del
reticolo formato dai granelli di fecola era visibile ed influiva negativamente
sulla nitidezza dell'immagine; la lastra sviluppata poteva solo essere
osservata in trasparenza o proiettata, ma non stampata con metodi fotografici
per cui ogni immagine era unica e non duplicabile.
Tra
la Kodak (statunitense) e l'Agfa (tedesca) si consumò una sfida, dal gusto
quasi politico, su chi fosse riuscito per primo ad eseguire una stampa a
colori. Vinsero apparentemente gli americani che nel 1935 lanciarono sul
mercato la Kodachrome, pellicola
a colori destinata a regnare per oltre settant'anni. Essa, però, benché
riproducibile, restava pur sempre una diapositiva. Nel 1936 i tedeschi
ottennero la loro rivincita commercializzando l'Agfacolor: il primo autentico
negativo fotografico a colori.
Ciononostante,
con buona pace di François
Jean Dominique Arago, malgrado i successi ottenuti, si continuarono a
prediligere il bianco e nero quali colori
della realtà.
Il colore tende
a corrompere la fotografia
La
fotografia di reportage rimase monocromatica e, paradossalmente, tale restò la
tonalità del reale. Il colore fu usato per le copertine dei rotocalchi o per le
pubblicità, divenendo la tinta del sogno. Più la cronaca era seria, meno opportuno
appariva l'uso dei colori, percepiti come un artificio retorico che offriva una
visione poco verosimile della realtà.
Non
tanto la prima, quanto la seconda Guerra Mondiale poteva essere raccontata a
colori, ma si sarebbe rischiato di perdere la necessaria sensazione di evento
fosco, sporco, catramoso che solo il bianco e nero riusciva appieno a
trasmettere. Le policromie potevano risultare troppo rassicuranti, al pari di
una terapia ansiolitica.
Prova
ne sono le rarissime foto a colori degli accampamenti partigiani durante la
Resistenza. Il medico Carlo Buratti, comandante di un distaccamento della 2a
Brigata Garibaldi e fotoamatore, documentò la vita dei monti con degli scatti
che quasi destabilizzano. Essi mostrano ambientazioni che, se non fosse per inequivocabili
dettagli, suggerirebbero all'osservatore la sensazione di tranquille scampagnate
in montagna.
Cambiando
fronte... i fotocolor prodotti tra il 1940 e il 1944, nella Francia occupata
dai nazisti, dal fotografo collaborazionista André Zucca, tramandano un Paese
investito dai toni caldi del sole, con sereni cieli azzurri, reso accogliente
da verdi prati e rallegrato da rossi accesi tra i quali anche quello delle
bandiere con la svastica. La Parigi hitleriana, insomma, risultava gradevole e
rassicurante così come la propaganda voleva. Il colore, quindi, non è da
ritenersi semplicemente una proprietà di ciò che ci circonda, ma si rivela una
componente basilare del messaggio che si vuole trasmettere, assumendo oltre a
quello estetico anche un valore psicologico ed ideologico. Furono diffidenti,
timorosi del colore anche tutti i grandi reporter della Leica, che pure di
soppiatto qualche scappatella tricromatica se la concedevano. Paul Strand: colore
e fotografia non hanno nulla in comune; Walker Evans: il colore tende a
corrompere la fotografia; Edward Weston, il più cauto: sono mezzi differenti
per scopi differenti; Henri Cartier-Bresson: gamma troppo limitata di toni.
Ancora vent'anni fa una giuria del festival di Arles si dimise in blocco contro
la proposta di una mostra di fotografie a colori (Michele Smargiassi).
Fonti bibliografiche e fotografiche
Massimo Vitale. Con l'animo che vince ogni
battaglia - I molisani nella grande Guerra (1917-1918). Enzo Nocera Editor.
Campobasso, 2007.
Centro per la fotografia Vivan Maier. 14-15 La
Guerra a Colori. Catalogo della Mostra a cura di Federico Mininni. CM Stampa.
Campobasso, 2018.
Paolo Giordano. La Grande Guerra rivista coi
colori della storia. Il Quotidiano del Molise, 6 gennaio 2019
Paolo Giordano. La Ragazza di Reims fascino e
suggestione de La Guerra a Colori. il Quotidiano del Molise, 14 gennaio 2019.
FOTOCRAZIA, Evoluzione
e rivoluzione nel futuro, nel presente e nel passato del fotografico. http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
Albo dei Caduti della Grande Guerra. http://www.cadutigrandeguerra.it/Default.aspx
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