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Il Quotidiano del Molise del 06 novembre 2010 |
di Paolo Giordano
Campobassso 22 ottobre 2010, a causa di un mio
“disguido ricettivo” sono in ritardo all’appuntamento di circa 30 minuti.
Arrivo trafelato ed aspetto di incontrare un austero signore che, dopo avermi
squadrato dall’alto in basso, mi rimbrotti: “Ragazzo mio, non ci siamo, la
puntualità nell’uomo è tutto!”.
Invece il dott. Michele Montagano è un
giovanotto classe 1921, busto eretto, viso sorridente, sguardo luminoso e desideroso
ancora di conoscere e scoprire, al pari di un adolescente.
Eppure l’ex volontario universitario,
ufficiale di complemento degli alpini, presidente vicario nazionale
dell’A.N.R.P (Associazione Nazionale Reduci della Prigionia) e Presidente Regionale
Molise dell’A.N.M.I.G. (Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di
Guerra), precipitò letteralmente all’inferno dal 1943 al 1945!
La sua narrazione è fluida e coinvolgente.
Non disdegna né la frase dialettale, né la battuta da raffinato umorista, è
insomma un oratore nato.
E’ per me un onore averlo conosciuto e poterne
ascoltare le memorie. Nel suo racconto non c’è rancore alcuno, né odio, neppure
per i suoi aguzzini:
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il dott. Michele Montagano |
“La cartolina di
precetto giunse ai nati nel 1921 prima di quelli del 1920. Restammo stupiti, ma
non più di tanto, sapevamo che la
Patria aveva bisogno di noi!
Iniziai la
guerra in Grecia, il paese che avevamo invaso. Quando sfilavamo per le strade
dei centri ellenici le vecchiette, vestite di nero e con i grembiuli stretti ai
fianchi, mi facevano pensare alle nostre nonne in Molise. La sensazione era
molto strana: sembrava proprio di aver occupato casa nostra.
Nel 1943 ero in
forza alla Guardia di Frontiera prestando servizio in Slovenia. Oramai noi
ufficiali avevamo compreso che l’Italia non poteva più continuare una lotta
divenuta impari. Quando ci giunse l’ordine di controllare i movimenti dei
tedeschi capimmo che si era all’epilogo. Fu allora che, per la prima volta in
vita mia, bestemmiai: era la sconfitta e dovevamo accettarla!
Più volte mi è
stato chiesto se, quando fu proclamato l’armistizio, ci fossimo sentiti
abbandonati dal nostro Re. Mentirei se dicessi che la resa si poteva evitare.
Non era più possibile continuare a combattere, non avevamo più i mezzi per
farlo! Il re doveva a tutti i costi salvare lo Stato e la corona. Probabilmente
ha sbagliato il modo, ma sicuramente ha ottenuto il risultato.
Comunque con la
caduta di Mussolini, nel luglio 1943, era apparsa chiara la fine di un’epoca…la nostra. Con quella seduta del Gran
Consiglio il fascismo si era suicidato. Fino a quel giorno in Italia tutto era infarcito
di fascismo! I maestri vestivano la camicia nera, i preti salutavano
romanamente ed in ogni casa c’era il quadro del duce (fermo restando le tante
eccezioni). La forte propaganda del regime aveva allevato una generazione entusiasta,
animata da certezze, pronta ad un’obbedienza cieca ed assoluta. Però sarebbe
più corretto dire che eravamo mussoliniani, affascinati dal carisma del capo e
da ciò che le sue scelte socio-politiche ci avevano lasciato credere. Penso sia
giusto ammettere che eravamo pervasi non tanto da sentimenti patriottici,
quanto da una strana forma di nazionalismo che nasceva anche dal nostro
campanilismo di provincia.
Insomma quel che
temevamo da mesi si concretizzò nel settembre 1943.
I tedeschi erano
ben armati e mal disposti verso gli ex alleati, che giudicavano, a tutti gli
effetti, dei traditori.
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il tenente Montagano |
Non eravamo
assolutamente in condizioni di combattere. Ingaggiare scontri a fuoco
significava farsi trucidare. In quel frangente un ufficiale non può mandare al macello
i suoi uomini. Con che diritto potevamo decidere per i soldati a noi affidati?
Il nostro compito era di salvare le loro vite… gli atti di eroismo gli avremmo
poi compiuti singolarmente, rispondendo in prima persona delle nostre scelte e
con la nostra vita.
A Gradisca
d’Isonzo fummo catturati da truppe
della Wermacht.
Il mio “tour” a
spese del “Reich” si è svolto in svariati campi di prigionia ed uno dei primi
fu Sieldce in Polonia. Eravamo una cinquantina di ufficiali, rinchiusi in più
baracche. Quando ci portavano all’esterno, per la conta giornaliera, cercavamo
di proteggerci dal freddo con i logori vestiti e con stracci recuperati qua e
là. Lo scopo di tale operazione non era di verificare se fossimo ancora tutti
presenti, quanto di debilitarci ed avvilirci, trattenendoci ore ed ore alle
intemperie. Bisognava stremarci e demoralizzarci affinché accettassimo di
aderire alla costituenda Repubblica Sociale Italiana. Il primo giorno di tempo
buono ci liberammo dagli indumenti in eccesso ed alla luce del sole potemmo
finalmente vedere i prigionieri delle altre baracche, che fino ad allora erano
stati solo delle sagome indistinte. Fu in quel momento che ebbi modo di
riconoscere amici e compagni di studi, tra cui Carletto Garambois, che era già
una stella del calcio campobassano. Egli era nato a Villar Perosa, la sua famiglia
si era trasferita a Campobasso seguendo il padre, giunto in Molise per lavoro. Con Carletto mi
ritrovai ancora a condividere “l’ospitalita germanica” a Sandbostel nei pressi
di Brema.
La Convenzione di Ginevra
stabiliva che i soldati prigionieri lavorassero, guadagnandosi il rancio,
mentre agli ufficiali era riservato un trattamento di privilegio che li esimeva
dal lavoro. Ai militari italiani furono riservati i lavori più umili e duri,
sempre per il totale disprezzo che i tedeschi nutrivano verso di noi, ma per il
profondo rispetto che portavano allo spirito di casta militare la “Convenzione”
veniva applicata per i graduati.
Agli ufficiali
I.M.I. (Internati Militari Italiani), quindi, venivano concessi degli “svaghi”
attraverso l’uso di strumenti musicali o palloni. Per questo fu possibile organizzare un torneo
di calcio tra squadre di varie regioni. Nella compagine Abruzzo-Molise giocava
Carletto Garambois. Non rammento chi fosse l’avversario, ma ricordo che
vincemmo realizzando 6 o 7 gol. I nostri carcerieri si lasciarono coinvolgere
ammirando quel ragazzo lacero che, pur se gravemente debilitato dalle
privazioni della prigionia, correva, calciava, dribblava, segnava… giocando con
classe e passione.
- Un altro episodio
che mi preme rammentare è l’incontro con mio padre.
Ero ancora a
Sieldce. Per un fortuito caso lessi la rivista di propaganda fascista “La voce
della Patria”. In essa vi era una rubrica di “ricerche” e scoprii che mio
padre, capitano del regio esercito, chiedeva notizie di suo figlio Michele. La
gioia di appurare che era ancora vivo fu immensa. Stranamente mi fu concesso di
recarmi nel campo di Biala Podlaska per incontrarlo. Quello che sembrava un
atto di pietà era una subdola strategia, speravano che io aderissi alla
nascente repubblica fascista.
A Biala su circa
2500 “ospiti” solo 147 non avevano accettato le proposte tedesche. Mio padre,
fascista, era tra gli “aderenti”. Sicuramente oltre alla scelta ideologica ce
n’era una profondamente umana: egli aveva -di fatto- adottato tre nipoti, miei
cugini, rimasti orfani di madre. Essi vivevano a casa nostra ed il ritorno del
capofamiglia in Italia significava una garanzia per mia madre e per i mie
fratelli.
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la "prigionia" in un disegno di Guareschi |
Quando arrivai
al campo compresi che si sperava in una mia adesione o forse che il mio
genitore potesse, con il suo ascendente, indurmi a cambiare idea. In realtà
stava per verificarsi l’esatto contrario: pur di non separarsi da me il Capitano Angelo Montagano era disposto ad
un ripensamento. Una sera ci incamminammo silenziosi verso il comando tedesco.
Lo trovammo chiuso! Compresi la sua intenzione e gli dissi “nella nostra
famiglia basta solo un eroe”. Rispettavo e comprendevo la sua scelta e lui
doveva fare altrettanto. Però, ribadii che non avrei mai mosso per i tedeschi
nemmeno una “spingula” (spilla). Papà Angelo comprese e sorrise. “Fortunatamente”
non ebbi la sventura di combattere contro mio padre.. quante volte ho pensato
con terrore all’eventualità di trovarmelo di fronte in battaglia. Il buon Dio
ha voluto che ci rincontrassimo a guerra finita, nella nostra terra insieme
alla nostra adorata famiglia.
- Passavano i
mesi e peggiorava progressivamente la nostra situazione. Quotidianamente
venivamo sottoposti a sevizie fisiche e torture morali, sempre allo scopo di
farci aderire a Salò.
Continuammo a
rifiutare tenacemente per fedeltà al giuramento ed alla divisa, per ragioni
etiche, ideologiche e politiche. Eravamo totalmente soli con noi stessi, ce ne
infischiavamo sia di Mussolini che del Re: dovevamo rispondere esclusivamente
alla nostra coscienza!
Coloro che erano
di autentica fede fascista avevano sottoscritto immediatamente, poi avevano
ceduto i più deboli, lusingati dalla libertà e da un miglioramento delle
condizioni di vita.
Io ed altri 500
mila I.M.I. continuammo a dire “NO”.
Contrariamente
alle altre vittime dei nazisti -gli Ebrei su tutti- noi Italiani potevamo
scegliere.
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Michele Montagano |
L’Ebreo era la vittima innocente di un odio inumano, mentre noi
eravamo dei soldati. Il Soldato sa che il suo futuro potrebbe riservargli
sofferenza e morte. La nostra era una prigionia “volontaria”, deliberatamente
accettata per salvare l’onore. In quei
19 mesi ci siamo ripetuti ogni giorno
“io lo voglio”, continuando a scegliere tra una libertà disonorevole e
la permanenza nei lager, soffrendo la fame, ma salvaguardando la nostra dignità
di Ufficiali. Nessuno ci pensa mai, ma non è secondario il fatto che distoglievamo
i nostri carcerieri dal fronte militare. Che siano stati centinaia o migliaia
poco importa… combattevamo così la nostra guerra.
Con il passare
del tempo alcuni di noi si piegarono, accettando di lavorare, impegnandosi
“cavallerescamente” a non fuggire, ma senza giurare fedeltà alla repubblica di
Mussolini.
La scelta era
finalizzata sia ad alleviare la dura vita dei campi di prigionia e sia a poter
contattare altre persone, ricevendone un beneficio psicologico ed anche fisico:
sarebbero riusciti a raggranellare qualche cosa da mangiare, per integrare la
pessima “dieta” a cui erano sottoposti. Anche questo comportamento, però, era
percepito come un tradimento da noialtri, che continuavamo a dire “NO”.
Con l’accordo
Hitler-Mussolini, del 20 luglio 1944, sulla smilitarizzazione e civilizzazione
degli I.M.I., venimmo equiparati a liberi lavoratori civili. Era come se ci
fossimo trasferiti volontariamente in Germania. L’esito del conflitto peggiorava
ed il fronte si avvicinava al cuore del paese: si doveva utilizzare tutta la
forza lavoro disponibile per sostenere l’industria, le miniere, l’agricoltura e
per sgomberare le macerie causate dai bombardamenti.
Il 16 febbraio
1945 i 214 ufficiali, presenti nell’Oflag 83 di Wietzendorf, si rifiutarono in
blocco di lavorare. I tedeschi ne scelsero 21 e fu comunicato ai compagni che
“non li avrebbero più rivisti”. Allora altri 44 si offrirono al loro posto e
tra questi c’ero anch’io! Per 9 interminabili ore ci tennero ”al muro”. Mentre
attendevamo il verdetto, martoriati dalla pioggia e dal vento invernale, io
pensavo alla “mia morte eroica”. Avrei gridato “Viva l’Italia” al pari dei
Martiri di Belfiore.
Fummo invece condannati
al carcere a vita: pena da scontare nel campo di “rieducazione al lavoro” di
Unterluss!
Nella seconda
settimana dell’aprile 1945 il comando tedesco ordinò di eliminare ogni traccia
dello Straflager: gli “alleati” erano oramai alle porte… Decisero di
rilasciarci fornendoci un lasciapassare, quali lavoratori liberi, e ci
riconsegnarono (grottesca precisione teutonica) i pochi e poveri averi
confiscati nel giorno di ingresso. Durante queste operazioni ci fu però chiesto
di gridare “Heil Hitler!” Ancora una volta, l’ultima volta, dopo aver raccolto
le poche forze rimastemi, e con tono deciso, risposi “Nein!”
Fui percosso
fino a svenirne!
Quando ripresi
conoscenza ebbi la certezza di essere risuscitato da un vero e proprio girone
dantesco. Ero finalmente libero e potevo tornare al mio paese ed ai miei
affetti. Non immaginavo cosa mi aspettasse, eppure mi consolava e spronava la
consapevolezza di non aver ceduto. Ero riuscito a restare coerente fino alla
fine… sapevo di averlo fatto anche per coloro che non erano sopravvissuti a
quegli atroci mesi di segregazione.”
"Così si conclude il racconto di Michele
Montagano. Quanto trascritto è solo una minima parte di quel tragico ed
interminabile periodo.
Oltre a tanti anonimi compagni di sventura
il nostro narratore ebbe modo di condividere le sue angosce con personaggi che
hanno “fatto la Storia”: Lazzati (il santo), Rebora (il poeta), Natta (il
politico), Tedeschi (l’attore), Novello (il pittore) e Giovannino Guareschi.
Questi nel 1957 tornò nei luoghi in cui era stato prigioniero. Sul suo viaggio
di “ritorno” scrisse un servizio a puntate sul “Candido”, che divenne -poi- il
libro “Ritorno alla Base”.
Il “giovanotto classe 1921” da Casacalenda non ama
parlare di sé. Si schernisce e non vuole assolutamente le luci della ribalta,
ma confido che voglia raccogliere le sue storie in un opera da lasciare ai
posteri.
Vorrei rivolgergli questo invito, però me ne
vergogno… tentenno e, quindi, perdo l’attimo fuggente per il mio suggerimento.
Infatti, dopo avermi affabilmente salutato,
egli si allontana con un passo spedito da bersagliere, scomparendo dietro l’angolo.
Apparentemente sono rimasto solo con i miei
pensieri. In realtà ho in mio possesso una ricchezza senza eguali: alcune delle
memorie di un uomo veramente straordinario."